dov’è finito l’ottimismo

28 maggio 2010 di: Stefano Piazza

E alla fine il governo dell’amore e dell’ottimismo ha dovuto fare i conti con la realtà. Ieri, in una imbarazzante conferenza stampa lo stesso premier ha dovuto ammettere che noi italiani abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità e che è tempo di sacrifici. Si, proprio lui, Silvio Berlusconi, lo stesso che l’anno scorso esortava a spendere e ad essere ottimisti, lo stesso che ha sempre tacciato la sinistra di catastrofismo strumentale.

Certo anche in questo caso, la colpa è stata frettolosamente individuata altrove: il crac della Grecia, l’attacco degli speculatori all’euro, gli sprechi della sinistra, insomma, più o meno la solita storia dei complotti. Ma la verità, conti alla mano, è che il debito pubblico italiano ha raggiunto livelli tali da rendere l’Italia un paese sempre meno credibile. Tutto qui, e certo non è colpa della Grecia. Il cosiddetto deficit, ossia l’ammontare della spesa pubblica non coperta dalle entrate, quest’anno ha raggiunto il record del 111,5%, ponendoci vicini al primato del paese più indebitato al mondo. Il deficit italiano, già, il vecchio, atavico male che ormai ci portiamo dietro senza che nessuno sia in grado non certo di curarlo ma, quanto meno, di evitarne l’inesorabile aggravarsi.

E quindi si ricorre al solito sistema all’italiana, arraffare soldi dove si può, pochi maledetti e subito. Questa volta a farne le spese sono sopratutto i lavoratori del pubblico impiego che si vedranno congelare per quattro anni gli stipendi, insomma una nuova e più subdola forma di tassazione. I soldi infatti non vengono dati e poi in parte sottratti attraverso il fisco, ma direttamente trattenuti dallo Stato.

Certo, ognuno deve fare la sua parte, tuonano in questi giorni soprattutto i lavoratori legati al privato, falcidiati già da due anni dalla recessione, nonostante il ridente ottimismo dei nostri governanti. Su questo non c’è dubbio, ognuno deve fare la sua parte, ma è altrettanto certo che se fossimo in un paese normale i sacrifici sarebbero più sopportabili. Vale la pena, a questo punto, di richiamare il concetto di deficit, «l’ammontare della spesa pubblica non coperta dalle entrate». Da un lato quindi sta la spesa pubblica e dall’altro le entrate.

Negli ultimi due anni le auto blu (che rientrano a pieno titolo nella spesa pubblica) sono passate da 574 mila a 629 mila. Si proprio così, nei due anni di recessione che abbiamo appena superato lo Stato ha pensato bene di incrementare di 55.000 unità il parco macchine, consolidando un record planetario che nessun altro paese al mondo è in grado neppure di sfiorare: gli Stati Uniti ne hanno infatti 73mila, i Francesi 65mila e quei pezzenti dei Giapponesi solo 35mila. La spesa pubblica per mantenere le auto blu ogni anno ammonta a 21 miliardi di euro (dati riportati dal “Il Giornale”, testata non certo di sinistra), insomma poco meno dell’attuale manovra economica. 21 miliardi di niente, perché mi sia consentito di ritenere «niente» l’esigenza dei nostri politici e amministratori di scorazzare in giù e in su con l’autista rispetto ai reali bisogni del paese. Ma andiamo all’altra voce del deficit, le entrate, e ci imbattiamo in un altro record italiano: quest’anno l’evasione fiscale (che rappresenta ovviamente entrate mancate) è passata da 100 miliardi a 120 miliardi di euro, l’equivalente di 5 manovre economiche. Basta affiancare questi due numeri, 21 e 120 miliardi, per rendersi conto come il sacrificio degli impiegati del pubblico impiego risulti inspiegabile, offensivo, inaccettabile. Basta affiancare questi due numeri per suscitare, almeno in chi scrive, una chiara quanto irrefrenabile sensazione di disgusto.

(Giacomo Balla, Velocità astratta più rumore, 1913)

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