ritornare in via D’Amelio

22 luglio 2010 di: Giusi Catalfamo

Non ci andavo da tempo, perché rifiutavo l’idea che fosse diventata una parata di autorità, una delle tante commemorazioni più o meno ufficiali. Lunedì ci sono tornata perché sapevo che non sarebbe stata una parata di autorità più o meno gradite, ma un giorno da condividere con i giudici che, tra mille difficoltà, cercano di risalire alla ricostruzione di una verità vera, non una verità di comodo, una verità che fa paura ai potenti che non vogliono scoperchiare una pentola maleodorante. Noi invece vogliamo che venga finalmente fuori, questa verità sussurrata e poi negata, e poi ancora negata, ma ormai sembra che stia per esplodere e che voglia mostrare il verminaio che nasconde da diciotto anni. Sono tornata in Via D’Amelio, perché volevo connotarmi con il popolo dell’Agenda Rossa, quella che è stata rubata, mentre il corpo di Paolo Borsellino era caldo e ancora si dovevano ricomporre i pezzi dilaniati degli agenti della sua scorta. Mi sono fermata davanti all’albero, quell’olivo ordinato da Gerusalemme. Mani ignote vi hanno depositato ogni cosa, cappellini con visiera personalizzati da una scritta; t-shirt con il volto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e una frase; pensieri sparsi scritti da mani amorose, frasi in libertà scritte da ragazzi delle scuole di varie città. Mi sono fermata a lungo, dopo, quando tutti se ne sono andati per sfilare in un corteo. Ho ricordato quel 19 luglio, diciotto anni fa, il dolore, lo sgomento, la rabbia, subito superato dalla voglia di fare qualcosa, di rispondere a quella ennesima strage, cinquantasette giorni dopo Capaci. Ricordo tanta gente, una Palermo in piedi finalmente, e la curiosità e l’interesse per la nostra iniziativa di fare un presidio a Piazza Castelnuovo. E siamo diventate Le Donne del Digiuno. Un periodo bellissimo e terribile, pieno di inziative e davvero non sapevamo come dividerci, perché tante erano le cose da fare. Pensavo allora che Palermo si fosse finalmente svegliata dal lungo sonno e che aveva imboccato la strada giusta. Non sapevo allora, che era solo un’illusione, che la più amara delle realtà stava invece prendendo forma e le elezioni del ’94 avrebbero apposto un sigillo definitivo a una deriva sempre più avvilente e degradante. Eppure noi, Donne del Digiuno, abbiamo subito intuito che c’era qualcosa di più e nei nostri volantini chiedevamo la rimozione di pezzi dello Stato, del Questore, del capo della polizia, del Ministro dell’Interno che allora, se non ricordo male era l’attuale vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, un nome più volte sussurrato. Quante volte abbiamo allora urlato Ora Basta! Avevamo anche le magliette tutte con la stessa scritta, conservo ancora il logo «Ho fame di giustizia, digiuno contro la mafia». E la fierezza con cui lo esibivamo! E c’era molto rispetto e ammirazione per la nostra iniziativa.

Un gesto estremo, come oggi fanno gli operai che salgono sui tetti o sulle gru, o quelli che si sono inventati l’Isola dei cassintegrati, tutto per attirare l’attenzione, così come volevamo fare noi, purché si parlasse di Palermo e della sua tragica realtà e non cadesse il silenzio ancora una volta. Oggi Palermo è accusata di indifferenza, può darsi, ma sono diciotto anni che chiediamo verità e giustizia e nessuno può accusarci se la stanchezza e la sfiducia hanno preso il sopravvento.

(l’olivo di Gerusalemme si è fatto albero in via D’Amelio)

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