Aristofane, le rane, gli attori, il regista e noi

6 luglio 2017 di: Egle Palazzolo

Riscuote meritato successo la versione de “Le rane” che il regista Giorgio Barberio Corsetti ha firmato con palese convinzione nei confronti del testo e di un autore, assai complesso, intrigante, a tratti geniale, seppure non di rado sfuggente e contraddittorio come Aristofane. Con l’occhio ben aperto a cogliere nel sarcastico e nell’accusatorio del fatto narrato tutti gli elementi quasi….freschi di giornata.
Dioniso – Ficarra e Santia – Picone ce l’hanno fatta, confermando una personale bravura a saper collocare la loro comicità laddove il banale non trova spazio e ogni apparente eccesso si smorza. Rispettosi della loro identità e dei loro parametri, i due noti attori palermitani si sono disciplinatamente ritrovati in un contesto che per recitazione e scenografia rispettava comunque una professionalità di eco antica. L’amalgama era armonico e ben inserito nella accattivante scenografia (colori e chiasso, eccessi e volgarità, mescolanza e voglia di coprire o esorcizzare la realtà) e nelle musiche dei Sette ottavi cui va, davvero, il massimo dei voti.
Aristofane sembra con le “Rane” toccare soprattutto il tema a lui più caro: il significato e quindi l’importanza, la necessità persino, della poesia. Per questo, fa scendere nell’Ade Dioniso che si trascina dietro il suo servo allo scopo di riportare Euripide tra i mortali e guarire i mali di Atene che pur vittoriosa su Sparta sta scontando, e peggio dovrà fare, gran parte dei suoi mali.
Da qui situazioni grottesche, incontri inattesi e sollecitazioni a cogliere ciò che, come detto, si preserva sempre attuale e assai vicino a noi. Nella odierna edizione dell’opera di Aristofane non si trascura un dato non frequente, che è il riferimento che l’autore fa in chiave seria alla politica, rivendicando eguaglianza di diritti, riconciliazione, amnistia, diremmo meglio: pace. Il poeta è la chiave. Ma a detenerla non sarà Euripide, bensì il più vegliardo e rigoroso Eschilo con buona, e voluta, sottolineatura degli umori e delle para-preferenze di Atistofane, ultimo grande drammaturgo di quel mondo greco a cui noi tutti, tecnologici e apparentemente disincantati, fruitori del terzo millennio, continuiamo a non voler rinunziare.
Anche perché, come dice il direttore artistico Roberto Andò, le storie sono antiche come il teatro stesso. E i grandi del mondo greco, passandosele di mano, non operavano una semplice riproposta ma azzardavano una nuova prospettiva. Come, più o meno, potremmo aggiungere continua spesso a verificarsi, con buona salute di un’opera che passa per le buone mani dello scenografo, del traduttore e in primo luogo del regista. Spesso autore a sua volta e che in questo caso ha puntato dritto alla parabasi tutta politica di Aristofane che, come sottolinea la sostanziale analisi di Luciano Canfora, ha qui una sua non casuale valenza.
Per cui ciò che ritroviamo in più o in meno, ciò che ci appare troppo lungo oggi della gara dei due grandi poeti per tornar con Dioniso sulla terra, conta in misura minore.  Se a conti fatti il pubblico ha inteso e in gran parte condiviso la “prospettiva”.

 

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