Biennale Arte, il ruolo dell’arte di fronte alle tragedie

19 ottobre 2017 di: Grazia Fallucchi

La fermata del vaporetto è Bacini ma è più gratificante percorrere le Fondamenta Nuove e poi la lunga passerella in ferro che guarda la laguna costeggiando le mura dell’Arsenale Nord o Novissimo, sino ad arrivare all’ingresso dei bacini di carenaggio della fine dell’800. Non si incontrano turisti in questa Venezia fuori dai giri consueti, ma da qui si può accedere per tutto l’anno a questa zona dell’Arsenale, in piccola parte restaurata da privati: vi ha sede la Thetis, una società che sviluppa progetti e applicazioni tecnologiche per l’ambiente (il giardino, ricco di opere d’arte moderne, è accessibile in settimana) e gli uffici del Consorzio Venezia Nova, quello del discusso – per usare un eufemismo- Mose. La parte più antica e significativa, il cuore del potere della Serenissima, resta invece chiusa ai veneziani e ai visitatori, tranne che per alcuni eventi e durante le Biennali. Su questo lato c’è il comparto d’impianto cinquecentesco delle sedici Tese Novissime che si affacciano, aldilà della Darsena Grande, sul complesso dell’Arsenale Nuovo (dei primi del 1300) con gran parte dei padiglioni e con il ristrutturato Teatro alle Tese, raggiungibili con una navetta ma solo con il biglietto della Mostra. Il luogo, delimitato dalla torre di entrata dalla Laguna, sembra uscito da un quadro surrealista, è semplicemente straordinario: già questo è un motivo per andarci comunque, e magari sostare nell’unico bar sulla riva. In più, ma soltanto sino alla chiusura di Biennale il 26 novembre, la struttura interna di alcune Tese Novissime è aperta ai visitatori: è infatti possibile visitare, gratuitamente per chi arriva da Bacini, tre padiglioni nazionali della Mostra: Cina, Hyper Pavillon e Libano.

La sorpresa è nella Tesa 100, che ospita il Libano, uno dei padiglioni a parlare dell’oggi, interrogandosi sul ruolo dell’arte di fronte alle tragedie contemporanee. Autore, il franco- libanese Zad Moultaka, compositore e insieme artista visivo che è stato in residenza in numerose e prestigiose istituzioni, ultima delle quali l’Ircam. Proprio con la collaborazione dell’Istituto di Ricerca musicale parigino, nasce Šamaš soleil Noir che unisce architettura visuale e composizione sonora, in una installazione che è uno spettacolo di luci, fasci laser e suoni (e buio!) di circa 12 minuti. Šamaš, il dio Sole della giustizia di epoca mesopotamica, “motore sovrano di tutte le cose” è invocato e scolpito insieme al re babilonese nel Codice di Hammurabi, una delle prime raccolte di leggi scritte: l’alta stele in diorite nera antica di 4000 anni, conservata al Louvre, qui campeggia nelle foto all’ingresso. Ma chi è Šamaš oggi? Dove è il sacro nel cuore dell’uomo? E’ la domanda intorno alla quale ruota l’installazione, che in un dialogo spaziale, temporale e sonoro unisce in parallelo, e in un rito, la distruzione della antichissima città di Ur (2000 a.C.), la guerra del Libano e la tragedia siriana.

La sala è in forte penombra, rischiarata poco per volta da raggi luminosi; si intravvede in fondo una parete scintillante, al centro un oggetto cilindrico simile al monolite di 2001 Odissea nello Spazio, il film di Kubrick; ai lati, 64 altoparlanti dai quali scaturiscono voci quasi minacciose che salmodiano in varie lingue l’inno a Šamaš mentre altre voci infantili recitano il Lamento per Ur, un componimento poetico sumerico. Da una parete all’altra della Tesa veneziana voci maschili e femminili a cappella si corrispondono in una sorta di requiem, via via facendosi più liriche. Si resta soggiogati, finché le interrompe il rumore assordante di un reattore: l’armonia è rotta, la luce che spezza bruscamente la penombra di quella cerimonia dal carattere religioso rivela che la parete d’oro è composta di 150.000 piastre (la prima moneta a essere coniata in Libano nel 1955, dopo l’indipendenza del ‘48); il monolite è un motore Rolls Royce anni ‘50 di un caccia bombardiere. Il Sole è appunto nero, nei cieli di Siria.

L’arte non può cambiare il mondo ma forse regalare una diversa prospettiva, lasciare intravvedere luci e ombre: «Šamaš è un palindromo, si legge da entrambi i lati e oscilla tra giustizia e ingiustizia», dichiara in un’intervista Moultaka. «Nella fine è l’inizio ma, anche, nell’inizio è la fine».

 

 

1 commento su questo articolo:

  1. Rita scrive:

    segnalo anche che all’Arsenale questa edizione della Biennale è fortemente contrassegnata da presenze femminili, sia
    come artiste che come temi

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