Illogicità apparente della sentenza sullo stupro

22 luglio 2018 di: Giulia Mangano

Recentemente una questione ha occupato la testa e il cuore di tutte noi donne. L’ennesimo caso di violenza sessuale, l’ennesima situazione di sottomissione di una donna, questa volta da parte di due uomini in seguito ad una cena tra amici finita in stupro. Dopo la denuncia della donna la vicenda segue un iter giudiziario controverso. In primo grado il g.i.p. del Tribunale di Brescia assolve i due imputati perché la donna non era stata considerata attendibile. In secondo grado la Corte d’Appello di Torino li condanna a tre anni di reclusione per violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) applicando anche la circostanza aggravante dell’ “ uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa” (art. 609 ter c.p.).

Dopo il ricorso in Cassazione, la decisione della Suprema Corte ha destato molti commenti da parte dell’opinione pubblica, per lo più scaturiti da precipitose valutazioni della sentenza. Tali avventate considerazioni sono giunte infine sulle pagine web di tutte le testate nazionali in un via vai di notizie delle quali non si sa più quali sono vere e quali sono invece costruite su una faziosa tendenza ad esasperare le questioni.  Da più parti la sentenza è stata etichettata come un clamoroso passo indietro della cultura giuridica in tema di violenze sessuali nei confronti delle donne. Secondo i primissimi commenti il non riconoscimento dell’aggravante dell’”uso di sostanze alcoliche o stupefacenti” dell’art. 609 ter c.p. andrebbe assolutamente contro la dignità delle donne, libere di disporre della propria vita e dei propri divertimenti senza, giustamente aggiungerei, dover temere uno stupro.

Io stessa ammetto di avere avuto per un attimo la sensazione che la decisione della Suprema Corte fosse illogica, e mi sono sentita al contempo offesa nella mia dignità di donna e frustrata dall’eventualità che l’ “alzare il gomito” con l’alcol potesse indirettamente costituire una diminuzione della tutela che l’ordinamento giuridico dovrebbe garantire ai diritti delle donne in particolare. Tuttavia, come spesso accade in queste situazioni, nelle quali è necessario effettuare una delicata operazione di analisi dei fatti storici, quasi alla stregua di un’operazione chirurgica, è necessario approfondire bene la questione prima di esprimere un giudizio, meglio ancora se direttamente da fonti autentiche. In realtà la sentenza potrebbe essere letta come affermazione del conseguimento di alcuni fondamentali risultati a favore non soltanto delle vittime di violenza sessuale ma di tutte le donne.

Ma procediamo con ordine.

A partire dallo stato di ubriachezza della parte offesa, unica circostanza mai messa in discussione dalle parti e confermata quindi nelle sentenze di merito e nei successivi ricorsi in seno alla Corte di Cassazione, quest’ultima afferma due punti fondamentali.

In primo luogo,  la valutazione in ordine alla presenza o meno del consenso prescinde dall’individuazione del soggetto che abbia cagionato lo stato di incapacità della vittima. Tale individuazione è anzi ininfluente ai fini dell’imputabilità del reato. Si tratta di un’affermazione di non poco conto e per nulla scontata, mentre ci è stata posta come ovvia e convenzionale. Secondo consolidata giurisprudenza, in tema di violenza sessuale di gruppo, tra le condizioni di ‘ inferiorità psichica o fisica’ previste dall’art. 609 bis rientrano anche quelle conseguenti alla volontaria assunzione di alcolici o di stupefacenti. Infatti la situazione di menomazione della vittima si presta comunque ad essere strumentalizzata per il soddisfacimento degli impulsi sessuali dell’aggressore a prescindere da chi l’abbia provocata. L’importanza dell’affermazione della Corte risiede nel fatto di avere stabilito che anche nelle condizioni in cui la vittima versava, non fosse ravvisabile la presenza di alcun valido consenso ai rapporti sessuali, distinguendo il fatto che la vittima si fosse volontariamente e autonomamente resa incapace di autodeterminarsi, dall’imputabilità del reato di violenza sessuale che comunque è riconosciuto.

In secondo luogo la Corte fa una precisazione tecnica in ordine alla non applicabilità della circostanza aggravante prevista dall’art 609 ter c.p., puntualizzando che sebbene da un lato lo stato di ubriachezza non incide sulla sussistenza del reato; potrebbe d’altro canto rilevare sulla determinazione dell’ammontare della pena finale. L’art. 609 ter prevede, come aggravante del reato di violenza sessuale  «l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti (o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa)». La locuzione della norma in questione “ uso di sostanze alcoliche ”  deve essere strumentale alla violenza sessuale ovvero “ deve essere il soggetto attivo del reato che usa l’alcol per la violenza, somministrandolo alla vittima”. E invece, sostiene la Corte, l’uso volontario non determina la sussistenza dell’aggravante. Per rilevare come aggravante, l’uso di sostanze alcoliche previsto dall’art 609 ter c.p., avrebbe dovuto essere imposto contro la volontà della persona offesa, ed è dunque fondamentale in tal senso che la sostanza venga assunta a seguito di un comportamento violento o minaccioso dell’agente.

Nulla di eccepibile pertanto al sillogismo della Suprema Corte, coerente, logico e rigidamente inquadrato all’interno delle attuali regole del codice penale. L’unica imperfezione che si potrebbe obiettare è quella nei confronti della legge semmai. Infatti applicare la circostanza aggravante dell’ “ uso di sostanze alcoliche ”  solo nel caso in cui sia il soggetto attivo del reato ad “usare” (letteralmente) l’alcol per la violenza tramite somministrazione alla vittima, potrebbe apparire riduttivo e di difficile, se non impossibile, dimostrabilità. Se effettivamente vogliamo intendere l’”uso di alcol” come circostanza aggravante della violenza sessuale, è necessario sganciare la locuzione dalla logica della somministrazione che appare ad oggi se non altro anacronistica (è infatti possibile una somministrazione all’apparenza volontaria, nella realtà indotta, ma come dimostrarlo?).

 

1 commento su questo articolo:

  1. Sibilla scrive:

    Capisco la ratio della cassazione nella mancata applicazione dell’aggravante ma, come dice bene lei, andrebbe rivista l’intera norma. Ma la libertà personale prima di tutto. Aggiungerei inoltre che il corpo non reagisce mai allo stesso modo assumendo la medesima quantità di alcol. In una situazione di stress, di abbassamento di difese immunitarie, di condizioni climatiche particolari (vedi i 40 gradi di oggi!), anche un secondo bicchiere di vino può creare confusione, rallentamento nei movimenti o alterazione della percezione della realtà.
    Voglio essere libera di sentirmi male senza che nessuno mi stupri!

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