“Pensavo di essere già e invece non sono che appena”
“Per chi arriva, Palermo è tutto porto. Ma per chi vi è nato: tutta partenza, tutto desiderio, tutta fuga. In cerca di quello che c’è dopo, mai soddisfatti nel tempo del mai. (…) E’ il debito da pagare alla città, ma ne è anche la dolce malia: il richiamo verso qualcosa che è sempre dietro l’orizzonte”. Con queste parole lo scrittore Alessandro D’Avenia, nel suo “Ciò che inferno non è”, descrive lo stato d’animo di ogni palermitano, sia esso d’adozione o meno.
Siamo agli inizi degli anni ’90 e Padre Pino Puglisi insegna ancora al Liceo Classico Vittorio Emanuele II, la scuola è appena finita e, grazie agli occhi del protagonista: un adolescente, si viene immersi nel clima che permea quel periodo. Infatti, Federico, questo è il suo nome, ci permette di vivere l’estate del 1993, finita, purtroppo, con l’assassinio di Don Pino, di capire non semplicemente la storia di quest’uomo, bensì, la storia di Palermo, delle sue viuzze, dei personaggi che s’incontrano via via. Ci mostra una città che si dona a chi la guarda con gli occhi di chi ama una donna bellissima che, sfortunatamente, si sta lasciando andare. Ogni angolo di Palermo viene descritto in modo che chi non c’è mai stato abbia voglia di andarci il prima possibile e chi si trova lontano e tra quelle viuzze ha vissuto sia preso da una sorta di “allammico”, nostalgia, che gli fa chiedere perché una città tanto bella deve essere anche così sofferente.
L’autore è riuscito a dare un nuovo punto di vista ad una storia conosciuta dai più ed è proprio questo il motivo, a mio avviso, per leggere questo romanzo, poiché è sì vero che ogni storia ci lascia e ci insegna qualcosa, ma a maggior ragione lo fa se ci tocca da vicino, come in questo caso.