Biennale Musica

31 ottobre 2019 di: Grazia Fallucchi

Il viaggio che aveva portato la Biennale Musica, diretta da Ivan Fedele (giunto alla fine del suo secondo mandato), prima in Asia e poi in America, si è concluso con il ritorno al nostro vecchio continente. “Back to Europe”, 63esima edizione del Festival di musica contemporanea, ha avuto 33 prime esecuzioni (di cui 19 in prima assoluta e 12 commissionate dalla Biennale). “Un punto imprescindibile di incontro con la musica contemporanea innanzi tutto per il pubblico italiano” -nota il presidente Paolo Baratta a chiusura di Biennale Musica -, con un amento del 14 % in più rispetto allo scorso anno e con una presenza maggiore di partecipazione straniera.

Dove sono i confini tra i vari generi, sembra chiedersi Fedele: le scelte spaziano dal confronto tra La Missa a sei voci d Monteverdi e l’esecuzione in prima assoluta di De l’infinito di Gianvincenzo Cresta; da Nomaden dell ‘Atlas Ensemble e i suoi musicisti da medio ed estremo oriente (con strumenti per noi esotici) uniti ai colleghi europei nel concerto del belga Joel Bons, all’arpista Emanuela Battigelli in un inconsueto mix arpa/elettronica; dalle commissioni all’italiano Filippo Perroco e Claudio Ambrosini al concerto “rock “del Leone d’argento Matteo Franceschini.

Inaugurato il 27 settembre con la versione da concerto dell’opera Written on skin, capolavoro del Leone d’oro Georges Benjamin, il Festival veneziano si è chiuso il 6 ottobre con la ormai tradizionale e molto attesa proposta di creazioni liriche, le “Operine”, come vengono chiamate dal pubblico: sono i quattro inediti atti unici scelti ogni anno attraverso il bando internazionale di Biennale College – progetto di teatro musicale voluto da Baratta e nel quale crede molto Ivan Fedele -rivolto a un team under 35 di compositore/ librettista. I quali, quest’anno, hanno privilegiato il Teatro dell’assurdo, raccontando un futuro dove società disumanizzate, dominate dal computer o da una sorta di grande fratello decidono delle sorti dell’umanità. Ma è lirico e non di rottura il linguaggio musicale, scarna la drammaturgia di questi giovani autori ( due gruppi italiani, uno israeliano tutto al femminile che è sembrato il migliore dei 4, e uno portoghese). Robot, Automi? Ecco che la ricerca, modernità unita a cultura, il linguaggio innovativo, lo sguardo curioso sul mondo che ci circonda esaminato con sense of humour anche nelle situazioni tragiche, si sono viste con il vero protagonista di questa Biennale musica, Georges Aperghis. Leone d’oro nel 2015, Aperghis crea con Thinking Things, in scena al teatro alle Tese, un universo artificiale ( ha mescolato i suoni di una stampante in 3D alle voci umane), mettendo in luce con l’interazione tra umani e macchine le aberrazioni della robototica. I robot sono tra noi, anche quando non hanno sembianze umane, spiega Aperghis conducendo una sorta di esplorazione sull’essere umano, sul corpo che cambia anche con i trapianti. Il risultato è una sorta di incubo divertente, “nello stile di Melies” che tuttavia allude seriamente alla vita e ai suoi imprevisti. Ai quattro interpreti, tra cui Donatienne Michel Dansac (nome da tenere a mente) si unisce un protagonista d’eccezione, un robot chiamato Poppy dai suoi creatori, Pierre Nouvel e Olivier Pasquet, che agisce in scena con le sue parti disconnesse rimettendo in gioco i circuiti di apprendimento degli uomini: nel mondo surreale di Aperghis sono gli umani ad avere aspetti robotici mentre il robot possiede caratteristiche umane. “Le parti si sono invertite, è come se guardassimo il punto di vista delle cose pensanti su di noi”.

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