l’appartenenza inganna
Nell’Italia del terzo millennio bisogna appartenere a qualcuno o a qualcosa.
E se non ci schieriamo noi ci pensano gli altri. Un tempo ci si collocava per Bruneri o per Canella, per Coppi o Bartali, Berlinguer o Andreotti (ah, ma quello c’è ancora), la Dc o il Pci. Oggi siamo palermitani o catanesi, juventini o milanisti, pisani o livornesi, e soprattutto la madre di tutte le dicotomie, lo zenit delle differenze, l’acme delle diversità: pro o contro il cavaliere.
Berlusconiani o antiberlusconiani, senza terre di mezzo e possibilità di astensione. E non ci si rende conto che tutto ciò segnala inequivocabilmente la vittoria di un omino che ha messo il Paese ai suoi piedi. Lui c’è, invasivamente infilato in ogni angolo della nostra vita, ha profondamente segnato la cultura e i costumi di un belpaese irriconoscibile.
Mi è venuto in mente tutto ciò, ingrandito dalla lente impietosa della morte, in questi giorni del ricordo di un grande attore scomparso, Raimondo Vianello. Nei commenti post mortem pochi si sono astenuti dalle considerazioni sulla berlusconianità del personaggio, come se le sue idee politiche avessero influito sulla sua bravura.
Perché non è possibile essere un bravo comico, un ottimo ingegnere, uno stimato manager, senza per forza essere un bravo comico di sinistra, un ottimo ingegnere berlusconiano, uno stimato manager di area Udc? Purtroppo la risposta esiste, ed è molto più triste della riflessione che porta alla domanda: perché l’appartenenza conta, e in Italia non basta essere un bravo ingegnere per avere successo. In cima ai problemi nostrani c’è il massacramento sistematico della meritocrazia in tutti i settori, in favore di una strisciante lottizzazione ad ogni livello.
Se riuscissimo a ripartire da questo, forse invertiremmo la rotta. Ma forse se riuscissimo ad invertire la rotta non saremmo nell’italietta disastrata del terzo millennio.