il volto impresentabile di Lima – 1

28 luglio 2010 di: Evelina Santangelo

«Perù, i due volti di un paese specchio del mondo». Così era titolato l’articolo di Claudio Magris uscito sul «Corriere della Sera» qualche settimana fa. E in quell’articolo Claudio Magris, prendendo spunto da alcune riflessioni di Mario Vargas Llosa sull’identità latino americana (che, in Sueño y realidad de l’América Latina, lo scrittore peruviano definisce «meticcia», anzi «plurale», contro ogni rivendicazione di purezza nativa o ispanica), prendendo spunto da quelle riflessioni, dicevo, racconta di Lima come «specchio di un caos vitale e delittuoso: un dedalo di gironi danteschi, un serraglio universale che mette in scena ogni giorno il potere, il segreto, il terrore, l’eros, il vizio… la crescita cancerosa di una metropoli in cui balenano il senso e la pena di vivere».

Ora, in quell’articolo Claudio Magris riprende anche un’altra considerazione di Vargas Llosa su Lima, città in cui, fino a qualche tempo fa, si poteva ignorare l’esistenza degli indios, mentre oggi nella metropoli di 8 milioni di abitanti, «si vedono tutte le stirpi, tutte le classi sociali. Un crogiolo di disuguaglianze, ingiustizie, miserie, ma anche di gestazione inquieta e difficile, talora violenta, di un mondo migliore», conclude Magris.

Ecco, vorrei prendere spunto da questo insieme di riflessioni per raccontare Lima così come l’ho vista io più o meno negli stessi giorni, dopo aver letto quel saggio (non ancora tradotto in Italia) in cui Vargas Llosa esprime proprio quella visione identitaria cui fa riferimento Magris.

A Lima si arriva, quasi sempre, senza aver prima visitato nessun’altra città del Perù, senza avere alcuna idea del paese, magari tenendo a mente le parole del poeta surrealista César Moro: «Lima la horrible».

E certo non è la bellezza quella che ti colpisce, una volta arrivati nella capitale peruviana, ma il modo famelico con cui – appena metti piede fuori dalla zona riservata ai passeggeri dell’aeroporto – «mediatori» non meglio qualificati ti offrono taxi, alberghi, informazioni, tallonandoti, bloccandoti, concludendo accordi che tu non hai ancora preso, trasmettendo freneticamente messaggi con i cellulari… Ecco, per me Lima è, prima di tutto, questo caotico disperato darsi da fare per «conquistare» turisti e ficcarli su una macchina che – tra i mille taxi abusivi e autorizzati che stazionano fuori dall’aeroporto – li condurrà, al prezzo più caro che si possa immaginare, lì dove devono andare o dove sono stati convinti ad andare, senza neanche rendersene conto.

«Qui non c’è disoccupazione. Qui chiunque fa qualcosa», rispondono quasi tutti i tassisti, se gli chiedi come si vive a Lima. E infatti la città, come moltissime altre città peruviane, è un coacervo di macchine nuove, vecchie, decrepite (il bombolone di gas nel portabagagli) adibite a taxi, piene di gente che si sposta preferibilmente così da un capo all’altro della metropoli boccheggiante di smog per poche soles (pochissimi euro), benché tu abbia pagato minimo 30 dollari per il tuo primo trasporto, contrattando fino all’ultimo centesimo, convinto di aver fatto un affare.

(strada di Lima presidiata, part. foto E. Santangelo)

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