parliamo di donne, per (ri)cominciare
Non ero in un’isola, ma era come se lo fossi. Un paesino alle porte di San Vito Lo Capo, perché la chiavetta che anch’io mi ero portata diligentemente appresso per «non perdere i contatti», non ne voleva sapere di collegarsi, anche se il computer è di ultima generazione. Avrei voluto parlare di tre episodi che mi sono capitati, e che mi hanno fatto riflettere, aventi lo stesso soggetto: donne giovani(ssime). Ve ne parlo ora.
1°- Le prime tre giovanissime le ho incontrate leggendo Acciaio della Avallone. E’ venuta a presentare il suo libro a due passi da dove stavo io. Dico tre perché le altre due, che hanno tredici e quattordici anni, sono le protagoniste del suo romanzo. Lei credo ne abbia 26. Il libro è potente e ascoltandola mi è venuto il dubbio che una 26enne possa avere una maturità tale da scrivere in quel modo sulle fabbriche d’acciaio e sulla classe operaia, e che invito tutte/i a leggere. Come dire, non mi è sembrata tutta farina del suo sacco, ma questo non ha alcuna importanza, perché certamente del suo sacco era la forza, la grinta che, durante l’intervista, da lei sprigionava, rispetto al suo stare al mondo da donna, che ha ricevuto la sua forza da un’altra donna, la madre, come lei stessa ha detto. La stessa grinta e forza che sprigiona dalle due giovanissime protagoniste del romanzo. La storia di una fortissima amicizia, che sconfina da parte di una delle due – Francesca – nell’amore, che alla fine vincerà su tutto, a scapito e “a prescindere” dalla presenza dei ragazzi maschi, fratelli, amici, semplici conoscenti o amanti che siano. A sostenerle, nel bene e nel male, le madri. I padri, se presenti, insulsi o violenti. La storia dell’amicizia, dice la Avallone, è autobiografica.
2°- Le altre sei giovanissime le ho incontrate ad un a festa nella piazzetta davanti la chiesa (orrenda!) dello stesso paesino, con dolci di ricotta, vino e liscio, nel mezzo della quale il conduttore annuncia uno spettacolo di danza di un gruppo di ragazzi del luogo. Invece sono sei ragazzine tra i 13 e i 15 anni che si esibiscono in diverse performance. E’ vero. Imitavano lo stile e le mosse delle veline, come mi faceva immancabilmente notare la mia amica Daniela, ma la grinta e la voglia di essere protagoniste, di esserci in quel momento, offuscava e sminuiva ai miei occhi la verità delle sue parole. Come dire, con la mente avrei dovuto indignarmi e dire: sono tutte uguali ste’ ragazzine, tutte veline vogliono diventare, non c’è speranza, la tivvu di berlusconi le rende schiave, etc, etc. Invece, a vederle ballare, chi più brava, chi meno, il mio stato d’animo era diverso. Sprigionavano tanta di quella grinta, riempivano così tanto col loro corpo la scena, che me ne sono tornata a casa più ottimista e leggera, malgrado i cannoli.
3°- L’ultima l’ho incontrata al ristorante. Entra una coppia. Lei, forse 25 anni, è vestita come una velina di striscia la notizia, con un fiore rosso tra i capelli cortissimi, come il vestito, anche questo rosso fuoco, tacchi vertiginosi, bellissima. Commento con la persona che è seduta al tavolo con me: ma l’hai vista quella? Lui risponde: la conosco, adesso te la presento. Mi dice che è biologa, che fa un lavoro di alta responsabilità, e che è una delle più brave nel suo posto di lavoro. Me la presenta, parliamo. Aveva perfettamente ragione. Una giovane donna brillante, in carriera. L’altro che gli sta accanto è il marito, ingegnere informatico nella stessa azienda. Dire che l’apparenza inganna è troppo banale. Allora mi torna in mente la definizione che di queste giovani donne fece una giornalista, Marina Terragni: donne doubleface, con la mente di un uomo in uno splendido corpo da donna. Il mio ottimismo, in fatto di nuove generazioni di donne, cresce.
perché?
la mente di una donna e’ forse da meno?
bisogna pensare da uomo e vestirsi da donna per essere migliori? Non capisco proprio il finale.
Se me lo vuole spiegare, la ringrazio.
Gentile Silvia,
Cara Silvia, no, la mente di una donna non è da meno di quella di un uomo, né bisogna pensare da uomo e vestirsi da donne per essere migliori. Ci mancherebbe! Può succedere però che, spinte dalla necessità di contrarre la lunghezza dello scritto per motivi di spazio sul sito (e io ne avevo preso abbastanza) si finisce per essere fraintese, e lei ha fatto bene ad esigere una spiegazione, e la ringrazio per questo. Devo fare un piccolo passo indietro. Con quella frase finale infatti mi riferivo ad un articolo comparso, mi pare a settembre del 2009, sulla rivista Via Dogana, della Libreria delle donne di Milano, a proposito del nodo sesso/potere e della trita vicenda delle escort e di berlusconi. Il succo del discorso era che è la società dello spettacolo ad offrire oggi occasioni di lavoro che le giovani colgono al volo; un lavoro dove il fuori conta più del dentro, dove il corpo viene usato come “capitale” su cui investire (il prodotto sono io). Un terreno scivoloso. Ne è seguita una discussione, in giornali e riviste, sulla differenza tra emancipazione intesa come indipendenza economica dall’uomo, “essere come gli uomini per essere libere”, per intenderci, e libertà come assunzione del senso di responsabilità verso se stesse e quindi anche verso il proprio corpo. Alcune hanno scritto: queste ragazze si usano come le userebbe un uomo; altre hanno risposto: non è vero, recitano la parodia della donna oggetto perché così gli conviene, perché queste sono le leggi del mercato, e queste ragazze vogliono vivere non sopravvivere. Mirano alto, vogliono, come si dice, un posto al sole o alla camera. “Rivendicano qualcosa che ha a che fare con cose messe in circolo da altre donne, ( ci si riferiva al femminismo) col potere decidere della propria vita”. Qual è la verità? Ricordo che D’Addario in una delle tante interviste rilasciate, disse che si definiva “una donna che camminava solo sulle sue gambe, e che le toccava fare spesso, come a molte altre, la parte della donna e dell’uomo per sopravvivere sul mercato”. Marina Terragni, la giornalista a cui mi riferivo, parlando di queste vicende coniò la frase che a me piacque molto: “un corpo femmina usato dalla testa maschio, un dominio autogestito”. Ecco, fatta eccezione per le donne complici del potere, che continuano a sorreggere lo specchio al maschio, a me pare che queste giovani(ssime) donne, anche quelle che “fanno come gli uomini chiedono”, non lo fanno per mantenere lo specchio al patriarcato, come succedeva prima. Vogliono un posto al sole, e mettono i piedi nel piatto, ma sapendo quello che fanno: falsamente dipendenti fuori e indipendenti dentro: doubleface (la frase è mia, non della Terragni, preciso), ma non certo complici del potere, magari “scisse”. Ecco, è questo che intendevo dire, saltando in effetti troppi passaggi! Questa è l’ idea che mi sono fatta, e che gli episodi che ho citato mi hanno rafforzato. Magari sbaglio, ma qual’è la verità?. Intanto spero di non averla delusa. Un saluto