we want sex, prima e dopo
Il film di Nigel Cole, Made in Dagenham tradotto in italiano We want sex con un gioco allusivo sul troncato sexual equality dello striscione, racconta una storia vera di donne in lotta in una fabbrica Ford delocalizzata nell’Essex (Gb) nel 1968 e tratta con mano leggera, talvolta anche troppo per eccesso di trilli e risatine di cui risuona il tempo della mancata «presa di coscienza» delle operaie, un argomento pesante come la parità retributiva allora tutta da conquistare. A parte qualche incongruenza – addette alla cucitura dei sedili erano 187 su 55.000 maschi, ma le scioperanti a sostegno dell’astensione ad oltranza appaiono una risicata minoranza neppure pienamente consapevole, eppure riescono a bloccare l’intera produzione provocando il minaccioso intervento della casa madre – il film con il sorriso castiga mores, e non solo i comportamenti aziendali discriminatori nei confronti delle operaie, pagate meno della metà dei maschi sol perché donne, o quelli ambigui di sindacalisti che non afferrano le ragioni della parità, ma credo soprattutto inchiodi con feroce ironia i comportamenti familiari prima che la rivendicazione femminista «io sono mia» li mutasse profondamente.
Il prima è quando il marito operaio della protagonista operaia – lei manchevole nei lavori domestici poiché travolta dall’improvvisa(ta) leadership sindacalista, lui suo malgrado supplente casalingo imbranato e maldestro – poteva rivendicare (in un momento assai poco opportuno, ma con alta suspence assicurata) la propria buona condotta di marito adorabile con un: «non bevo troppo, non sto troppo fuori casa, non vado a donne e non alzo neppure le mani su di te e i ragazzi». Capito di che doveva ringraziare la sua buona sorte, lei che osa rispondere: «sono nostri diritti, non privilegi»? Il dopo è questa rivelazione che spiazza l’uomo a tal punto, ma siamo nella finzione di un film, da trasformarlo in antesignano dei tanti «femministi» ammiratori delle capacità delle compagne, molto al di là da venire.
Il prima è anche la coppia upper class, lui manager Ford tracotante e pretenzioso che comanda a bacchetta la sua lei, donna colta intelligente e istruita ma sottomessa, per tradizione o convinzione chissà, al marito-padrone che la schiavizza anche in presenza dell’ospite caporione Ford invitato a sua insaputa. Il prima è quando lei, insperatamente richiesta di un parere sullo sciopero delle operaie, ne spiattella uno talmente «progressista» da allibire i due e così offrire spunto a quello con mandato di dirimere la vertenza a favore della ditta, per fare l’esatto contrario.
In quel prima, in tal conto erano tenuti i pareri delle donne che non fosse stato per la ministra rossa e focosa, che prese a cuore la vertenza e si diede da fare, nel 1970 in Inghilterra non si sarebbe approvata la legge sulla parità salariale uomo-donna. Il dopo è che in seguito, non tutti, ma «parecchi» Stati europei l’avrebbero adottata.