la misura univoca del desiderio nel rapporto Censis
La notizia non è nuova, ne hanno parlato tutti i tiggì, ma mi è capitato di recente di leggerla stampata sul foglio. E mi ha colpito. Parlo dell’ultimo rapporto Censis, dove per spiegare a che punto siamo, oltre che ai tradizionali numeri, il presidente De Rita ricorre alla psicoanalisi. Perché il berlusconismo non è solo un fatto politico-istituzionale, ma è entrato nel comportamento delle/degli italiani. Ed è su questo fronte che vanno date le risposte. Bravo De Rita, mi sono detta. Perché non basta una manovra di partito o le elezioni per buttare giù “il fenomeno”. Certo già sarebbe molto, direte voi. E poi? Nel rapporto in questione gli italiani/e vengono definiti «spaesati, indifferenti, cinici, mediaticamente passivi, autoreferenziali, narcisisti, condannati al presente, soprattutto i giovani, senza profondità di memoria e futuro». In sintesi «vuoti, appiattiti verso il basso, costretti a fare i conti col declino della soggettività». E aggiunge: «la strategia del rinforzo continuato dell’offerta è strumento invincibile nel non dare spazio ai desideri».
Come antidoto il rapporto propone: «Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita». Wow! Ho esultato per la seconda volta. Ci siamo! Procedendo nella lettura però mi accorgo che De Rita indica come «possibili e futuri germi di desiderio» a) la crescita di comportamenti apolidi legati al primato della competitività internazionale (?); b) il federalismo; c) la formazione di piccole comunità a misura d’uomo. La montagna ha partorito il topolino, mi sono detta. Oppure sono io che non ho capito. Di che tipo di desiderio parlava De Rita, se di fronte ad una analisi che – se è vera com’è vera – mette in discussione l’anima della gente, l’individuale, oltre che il collettivo, al di là e al di sopra delle ideologie, propone, come antidoto, oltre che a e b, piccole comunità a misura d’uomo? E le donne? Non foss’altro perché è proprio dall’ordine maschile che bisognerebbe prendere le distanze, se non addirittura fuggire a gambe levate. Ma la mia delusione è ancora più profonda. Evidentemente De Rita ha un concetto diverso di desiderio, da come lo ha inteso il femminismo.
Ovvero come punto di partenza per ricostruire la propria soggettività, e quindi, di conseguenza, anche il sociale. Una rivoluzione, così com’è stata, che non è di là da venire, «possibile e futura» ma che continua ad essere in corso, là dove ci sono donne che s’inventano ogni giorno forme di relazione capaci di sovvertire quest’ordine. Per chi ha memoria corta, come De Rita, ricordo che è stato pure pubblicato un libro sull’argomento, dal titolo appunto La politica del desiderio. Dov’era a quei tempi De Rita, per non ricordarselo?
(ritratto di fanciulla in un affresco pompeiano)
Non è da chiedersi se niente è più desiderabile?