Totò Cuffaro, delitto e castigo
Pochi giorni fa si erano aperte le porte del carcere per l’ex senatore Vincenzo Inzerillo, un politico anni Ottanta-Novanta, democristiano della prima ora, sbiadito nella sua vecchia connivenza con la famiglia mafiosa di Brancaccio. Un processo lungo e articolato ce lo aveva fatto quasi dimenticare, tanto più che il personaggio era di quelli concreti, arcaici, taciturni, laterali: il politico perfetto per le intese con cosa nostra.
Lo stesso non può dirsi di Totò Cuffaro. Saperlo in carcere fa più impressione, è innegabile. La sua è una parabola da caduta degli dei. E’ come una morte improvvisa, tale è il dissolvimento del potere, foss’anche momentaneo, per un politico alla Cuffaro. I tre gradi del processo sono stati rapidi, tre anni circa. Il tempo è volato e l’ex governatore eletto al Senato con l’Udc subito dopo aver lasciato Palazzo d’Orléans, lo si è sempre visto in ordinata attesa del verdetto finale pronto a rientrare sulle scene dopo l’interruzione di una lunga saga di potere gestito a piene mani. Cattolico, superstizioso, sicilianissimo, democristiano con il Dna di Calogero Mannino, Totò in questi rapidi tre anni si è dibattuto fra la speranza che le prove a suo carico non reggessero (mannaggia alla tecnologia e alle intercettazioni capaci di zittire mille pentiti) e la paura autentica di una condanna per mafia, l’equivalente della sepoltura politica, forse più umiliante della galera.
Il fatto è che infine Cuffaro in galera c’è finito davvero, beffato da se stesso e da un’inconsueta, simbolica circostanza giudiziaria. Il procuratore generale della Cassazione, cioè l’accusa, aveva chiesto di alleggerire la condanna inflitta in appello, depurarla dal carico mafioso: sarebbe stata come un’assoluzione. L’incarnazione della bulimia da voto, sarebbe rimasto senatore, non avrebbe perso l’immunità parlamentare, il reato sarebbe per giunta andato prescritto. Era pronto, se non il maledetto vassoio di cannoli del 2008, quello con una torta margherita della moglie Giacoma da spartire a casa con i figli ormai adulti, sotto lo sguardo di una madonna (amuleto di sempre) o di una santa Rosalia.
E invece Cuffaro entra nel nuovo ciclo dei vinti. I potenti che perdono. Con una dinamica che quasi sgomenta perché la giustizia italiana e i politici messi sotto accusa, non ci hanno abituato né a questa celerità tanto meno alle sue conseguenze. Un uomo di potere risponde di uno o più reati gravi, viene sottoposto a tre gradi di giudizio, si misura con tre sentenze, l’ultima lo condanna, l’uomo di potere va in carcere. E’ il contrario della metafora kafkiana, è la prassi di una democrazia compiuta. Chi viola le regole paga un prezzo. Eppure il sentimento non è univoco. La variabile è una legge non scritta. E’ la pietas. Ma non per la sbandierata dignità con cui l’ex governatore pigliatutto si è consegnato a Rebibbia. E’ la pietas che induce il modello di sub-cultura che si conferma fino alle estreme conseguenze e che lascia orfani gli elettori di Cuffaro, per nulla convinti che giustizia è fatta. E’ la pietas verso chi non vede la possibile catarsi in questo dramma alla Sopranos. Politici, comprimari e mafiosi sono e restano orfani e kitsch. Cuffaro passerà il testimone a chissà chi, lui il titolare di un’arroganza di velluto, suadente, baciatrice. Mancherà ai siciliani come lui. Sono tanti e già piagnucolano, i coccoloni del far nulla, penduli valvassini.
Cuffaro aveva trasfigurato il favore rendendolo baluardo della politica senza possibilità di scelta. Conosce benissimo i suoi conterranei, si è sempre detto: forse uno per uno. I siciliani sono stati il suo lavoro, la sua dote in cassapanca, il suo oggetto del desiderio, così come sono: mafiosi, capaci, inoperosi o di talento. Nessuna differenza fra la telefonata del cugino di un autista con l’urgenza di un intervento chirurgico e un posto da trovare in ospedale e un uomo di palude, un medico con la coppola, un ingegnere-manager-di-mafia emissario di Bernardo Provenzano da incontrare in un retrobottega. Nessuna percezione del bene o del male. Di Cuffaro non resta solo l’eredità di un corpus elettorale molle e senza autodeterminazione, rimane l’idea una politica imbevuta di preghiere assolutorie e dell’illusione pagana di quella immunità-impunità che talvolta scivola sotto il peso di una cimice.
Brava, articolo ottimo che mi fa ammirare sempre più questa stampa al femminile. Ricordiamo anche che la così detta dignità con cui si va in carcere è del mafioso come la sua fede in Dio, ma pietà per Cuffaro che almeno paga.
Grazie, Paolo.
Cara Marina, ottimo articolo per un pubblico colto e raffinato, capace di chiaroscurare la società siciliana così impossibile da rappresentare in bianco e nero. Ma su questa scia ti seguo e provo a fare un ragionamento. Una Sicilia di penduli valvassini, impegnati in un potere di rango terzo dopo quello dei vassalli e dei valvassori, mi sta evidentemente stretta. Resto convinto che, nell’uso moderno del termine, possiamo concordare che la classe dei valvassini è preunitaria e non ha mai avuto soluzione di continuità con la originaria condizione feudale. E resto convinto anche che l’in apacità di trasformare i valvassini in cittadfini i valvassori in piccola borghesia e i vassalli in borghesia la possiamo tranquillamente spartire tra tutti quelli che in Sicilia hanno tratto vantaggio dall’assioma secondo il quale in Sicilia è meglio )più utile) avere un amico che avere un diritto. Di questo cibo si è nutrita Cosa nostra “ab origine” elevando il concetto a sublimi livelli metabolizzandolo in una sorta di invincibile esercizio di supplenza di uno Stato assenne, ora spagnolo, ora borbonico, ora piemontese. Ma i boss non sono stati i soli a cibarsene. In fondo il “patto democristiano” si fondava su questo e andava ancora bene quando riusciva a produrre una sortga di clientelismo di massa laddove la pubblica amministrazione diventava la maggiore industria siciliana capace di distribuire migliaia di posti di lav oro. Un “patto” vincente al punto di avere sbiadito il suo “colore” originario per diventare (col consociativismo) un “patto” sfruttato da tutti. Cuffaro, dun que, è il certo non sorprendente prodotto di un sistema globale che è riuscito a diventare una Grande Muraglia di caucciù sulla quale rimbalzano le cose migliori che l’Umanità ha pensato negli ultimi 50 anni e delle quqali è riuscita a far giungere solo un rumore appassionato, un giavellotto senza punta. L’amara considerazione è che fuori dalla Grande Muraglia pensavamo ci fosse la Civiltà. Ma oggi Hannibal ante Portas, la fuori c’è Berlusconi con le suo Girls, le sue incursioni cafone in Tv e nelle case degli italiani. Che però lo adorano. Così mi chiedo: In Italy Are we all sicilians? Voglio abbandonarmi al lusso di pensare che uno come Cuffaro, che fa una cosa scontata come dare corso alle conseguenze di una condanna definitiva, sia meglio di un Berlusconi che a questa regola tenta di sottrarsi nel modo più violento trascinando il Paese intero verso un tramondo inquietante che tutti speriamo non prosegua con un’alba tragica. Detto ciò l’articolo mi è piaciuto molto ma conoscendoti non ne sono affatto sorpreso. Un abbraccio. Billi
Marina, chissà se tutta questa pietas Cuffaro se la merita davvero.
Alla fine questa (quasi affettuosa) comprensione è ripagata da cosa? Da disoccupazione e munnezza…
Credo che Cuffaro ci susciti pietà soprattutto perchè è il volto di una Sicilia molle e indolente che appartiene, in minima misura, a tutti noi isolani.
E forse Cuffaro (l’uomo) ci fa anche un po’ paura, perchè questa sua deriva dell’etica è qualcosa che può tentare tutti, in questa terra e di questi tempi.
Grazie Billi, grazie Paola.
Al primo, grazie anche per aver aggiunto la “l” di valvassini, era uscita…
Che dire, Billi? Lo so, abbiamo il complesso della terra di nessuno, l’alibi umanissimo del “quello che abbiamo visto noi…” e per di più allungando lo sguardo verso i nuovi mostri del potere, viene voglia di praticare indulgenza verso il nostro Totò. Ma è pur vero, come dici tu, che per ragioni storiche, antropoligiche e del chissenefrega degli altri, siamo qui a registrare il piagnisteo dei “puffarini”. La pietas che descrivevo è per loro, per l’impossibilità per questo popolo
imbelle, di dirsi un popolo contemporaneo, compiuto, moderno, come si vorrebbe nei trattati di diritto costituzionale e internazionale. Manca quella capacità di scelta che ci lascia come un mucchio selvaggio senza un capotribù.
Grazie per i complimenti. Conosci bene le ragioni della dissidenza e del bisogno di esprimersi dove viene offerto asilo.
Paola, Cuffaro a me ha fatto sempre paura. Perché il suo spacciato amore per la Sicilia è stato vorace e semmai ha instaurato un pericoloso sorridente e affettuoso regime in salsa di ricotta. A fianco c’era cosa nostra, è dimostrato ormai.
Bevuto in un sorso, da qui i complimenti. Nel merito, resta da domandarsi se, seguendo la traccia del titolo, l’immagine di Santa Rosalia o della Madre non siano troppa grazia rispetto alla Sonia redentrice di Raskolnikov. Oppure troppo poca. Lui seppe di fare male, beffandosene. Mutando le propozioni, l’ex governatore ha agito con analoga tracotanza? Inquisitoriamente potrebbe dirsi di sì, ma la questione pare inquadrarsi meglio in un’ottica di “necessità” di potere. Gogna magari temporaneamente più gloriosa ma non meno, e colpevolmente, stringente. E resta da chiedersi se la reclusione, nel paese delle anche più tracotanti impunità, sia la Siberia della catarsi nel romanzo più grande della storia della letteratura. Che è soltanto luogo della coscienza.
Un bacio e grazie.
Proprio così Totò, se vogliamo fare gli acrobati fra la letteratura e il “real drama”, stabilendo indignate sproporzioni possiano persino giocare sull’accostamento. Giusto perché si è usurpato il titolo più alto di cui la letteratura ci abbia fatto dono. Senza Dostoevskij forse non avremmo mai avuto gli strumenti per capire che il posto dell’uomo molto spesso è l’abisso. Ciao, darling. Grazie
La supponenza del cannolo si è scontrata, come necessità democratica vuole,con le regole che la società civile si è data.
E tuttavia il comportamento del perdente che è metafora della contrapposizione è a un tempo metafora del riconoscimento delle regole del contratto sociale.Metafora è la cimice che schiaccia la banalità,del male? Che dire di chi stravolge le regole e dei tanti massificati ?
Avevo pensato a Rousseau e sono d’accordo con te. Restano gli interrogativi che mi inducono sempre più a guardare oltre il confine. Ciao
Complimenti per l’articolo che condivido sino in fondo. Posso condividere anche i commenti che, però, mi sembra un pò troppo su un livello elitario culturale.
Quello che vorrei aggiungere a quanto già detto è solamente che
la mentalità diffusa che “così fan tutti” autorizza le persone a fare e pensare cose che sanno che sono sbagliate e non cambieremo un bel niente. Ciascuno deve assumersi le responsabilità delle proprie azioni: quando va a votare (seppure la scena politica non sia esaltante), quando vive in società (a cominciare dal rispetto della cosa comune, che vuol dire di tutti e non di nessuno), quando lavora (e cerca di fare il proprio dovere a prescindere dai furbi, i raccomandati, gli assenteisti, ecc.), quando è in famiglia e trasmette dei valori che si fondano prima di tutto sul rispetto (la mia libertà finisce laddove interferisce con quella degli altri).
Sono convinta che solo cambiando “la testa” possiamo cambiare anche la nostra terra e non dobbiamo avere paura di essere in minoranza, seppure sia difficile.