chiusura in bellezza della Biennale teatro
Peccato che sia irripetibile in un altro posto, peccato che non ho potuto vedere bene perché c’erano pochi posti a sedere, nonostante la prenotazione obbligatoria, peccato che non c’eravate: l’ultimo spettacolo in programma per il festival Biennale Teatro di Venezia è stato fantastico.
Consisteva in sette pezzi brevi dei registi Ostermeier (Death in Venice), Lauwers (The slow lie), Rodrigo Garcia (Desconocer nuestra propria naturaleza), Jan Fabre (The holy gangster), Ricardo Bartis (Burocracia), Calixto Bieito (Envidia), Romeo Castellucci (Attore, il tuo nome non è esatto), recitati ognuno in un luogo di Venezia poco accessibile al grosso pubblico, come la sala Concerti o l’Atrio del Conservatorio Benedetto Marcello, l’Aula Magna e la Biblioteca dell’Ateneo Veneto, la Sala Rossi e le Sale Apollinee del Teatro La Fenice. Questa volta non c’era bisogno di schermi, o di arredi coreografici, anche se Lauwers ha posto 2 tavoli capovolti tra due pianoforti al centro del palcoscenico del Conservatorio: le stanze o gli atri dei palazzi veneziani hanno fatto da cornice a così tanti film, che potete immaginare benissimo come gli attori si muovessero a proprio agio in quegli ambienti.
Gli spettatori invece osservavano più o meno intimiditi quanto accadeva davanti ai loro occhi, dagli Indemoniati che si dimenavano per terra di Romeo Castellucci ai gangster–donna che tenevano al laccio e torturavano aitanti transessuali nel pezzo di Fabre, o sbirciavano tra le piante il triste canto di Gustav von Aschenbach che si invaghisce di Tazio durante una cena in un ristorante. Si poteva sbirciare anche tra le fessure dei cappucci bianchi degli attori di Rodrigo Garcia, seduti a un tavolino davanti a un solitario, se ci si sedeva sul piccolo sgabello dall’altra parte del tavolo, mentre un altoparlante raccontava con voci diverse le speranze e le paure di chi va a farsi leggere le carte. Sentire parlare di vita e di morte nell’atrio del Conservatorio di Venezia mentre attorno a voi ci sono diversi incappucciati che giocano a carte fa un certo effetto, ma ci si abitua a tutto, a vedere scomparire e ricomparire svestiti attori striscianti tra le file di poltrone del conservatorio, a sentire recitare pezzi di Dante, Brecht, Shakespeare e Neruda da un gruppo di invidiosi fra cui una coppia, che emula Othello, e una donna che simula un orgasmo con un microfono.
A tutti i peccati ci si abitua, in fondo, così come tutte le rappresentazioni teatrali a un certo punto smettono di essere magiche, perché anche tu entri in quel mondo dove tutto è finzione, dunque normale.