la rabbia non è violenza

20 ottobre 2011 di: Monica Lanfranco

Dieci anni fa, dopo il G8 di Genova, si temevano scontri e incidenti in occasione del Social forum di Firenze (settembre 2001), ma non ci fu violenza. Sembrava che il dibattito sulle pratiche di piazza potesse evolvere, dentro ai movimenti, elaborando il lutto per la morte di Carlo e per l’occasione perduta di denunciare a mani nude e a volto scoperto la violenza del sistema, rispondendo con la costruttività dell’alternativa, con la fermezza composta dei genitori di Carlo e delle vittime della polizia nel continuare a chiedere verità e giustizia. Dieci anni nei quali alcune di noi hanno continuato a produrre materiali, a costruire eventi collettivi (ultimo in ordine di tempo Punto G 2011) e a lavorare nella formazione alle pratiche sociali che costruiscono, che curano e non distruggono.

Donne disarmanti, (così chiamammo il testo che ho curato assieme a Maria Di Rienzo), è stato nel 2002 uno dei contributi in questa impresa, assieme al quotidiano agire attraverso le nostre riviste di donne, i blog, i siti, le radio. Questo lavoro, attento a non cadere nella trappola militarizzante che scatta quando per «smantellare la casa del padrone si usano gli stessi attrezzi del padrone» (per citare Audre Lorde), fatto da studiose e attiviste donne e da pochi uomini, in Italia è sempre stato guardato con sospetto, sufficienza, noncuranza (a seconda di chi osservava) anche e soprattutto dentro i movimenti altermondialisti. La tendenza è stata, (ed è), quella di galleggiare ambiguamente nella nebbia del “non mi sento di giudicare”, “non mi sento di condannare”, “ci sono pratiche diverse e linguaggi diversi”, “non bisogna dividere tra buoni e cattivi”, quando si era messi di fronte ad atti violenti, sia quelli dei blocchi neri o degli antagonisti in varie occasioni.

Come se ci fosse una violenza buona e giusta (quella dei movimenti, che reagiscono) e una cattiva (quello dello stato e della polizia). La violenza è violenza. Lo sanno bene le donne, che fino al 1996 in Italia erano vittime di stupro ma ad essere violata era la morale, prima della modifica legislativa che si attendeva da oltre 20 anni: che accadrebbe se la rabbia delle violentate, delle mobbizzate, delle vittime di stalking si mutasse in violenza verso gli uomini? So bene di proporre un paradosso, ma quello che oggi viene celebrato, nei fatti di Roma (e annunciato per domenica in Val Susa) come giusta reazione all’ingiustizia è, nei fatti, un farsi giustizia da soli che non solo non sortisce effetti, se non buttare discredito sui movimenti pacifici e fare alzare il livello di repressione e di militarizzazione, ma è anche e soprattutto una non risposta.

E’ l’attivazione della solita tragica vecchia spirale. Basta con le giustificazioni per chi viola lo spazio pubblico con la logica testosteronica militare, organizzata e non. Occorre ammettere che sono state sottovalutate, a sinistra come dentro i movimenti che non si riconoscono nelle politica tradizionale, alcune derive violente nei linguaggi, come nelle forme, così come nei contenuti di frange sempre più numerose di giovani (e non). Ricordo bene le discussioni a proposito dei ‘compagni’ delle tifoserie ultras; se si ascoltano gli slogan di oggi moltissimi sono mutuati, nel ritmo come nei contenuti, (poverissimi), proprio da questi ambienti. Come scrive Peacereporter: «Gli Indignados italiani hanno perso una grande occasione e ne sono responsabili perché da domani non si parlerà del futuro delle nuove generazioni, della disperazione delle vecchie, ma di una manifestazione con centinaia di migliaia di persone rovinata da un gruppo di criminali vestiti di nero». Pensiamoci

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