tre giovani vite spente in missione di pace, ma è guerra
Un pensiero, che non incontrerà il favore di molti termitani, riguarda il Carnevale di quest’anno, dopo la chiusura dello stabilimento della Fiat. Il vecchio è passato, il nuovo non c’è ancora e non sappiamo bene cosa avverrà. Dal kaos del carnevale dovrebbe nascere un nuovo ordine. E’ questo il senso del carnevale? Al termine della sfilata dei carri viene letto il “testamento”, ironico, sbeffeggiante la classe politica del luogo. I difetti sono ben delineati. La risata è assicurata. Cosa ci sarà di nuovo, quest’anno, dopo la fine del carnevale?
Attesa, speranze, illusioni. “The show must go on”. Non è altro che una manifestazione trita, che non può interrompersi per nessuna ragione. Neanche per la chiusura di un’azienda, che dava lavoro a più di un migliaio di persone e sosteneva numerose famiglie. La motivazione, per non interrompere lo spettacolo, è di natura economica: può portare un po’ di benessere e far divertire o far dimenticare i problemi, almeno per un pò di ore. Poi arriva, come un fulmine a ciel sereno, la notizia della morte di tre giovani militari. Erano in Afghanistan. Un incidente mortale.
Termini è ancora una cittadina di provincia. Le domande si inseguivano: «ma chi era?» «di chi era figlio?» «quanti anni aveva?» «così giovane!» «siamo alle solite, vanno lì per mancanza di lavoro e ci rimettono la vita» «lo sospenderanno il Carnevale?» «forse sì, forse no». Il giovane Sindaco ha sospeso il Carnevale. E’ stata una persona giusta. «lo faranno il funerale di Stato?» «ma sicuramente sì» «sicuramente no». E’ stato un funerale quasi privato. Sì, c’era il Vescovo monsignor Romeo, lo stesso che aveva dovuto spiegare al Vaticano il perché della futura morte di Papa Benedetto XVI. C’erano il nostro Sindaco e Padre Anfuso, come sempre adeguato agli eventi dove è presente il dolore. Tanti giovani militari e qualche alto grado. Ma da Roma, nessuno. Certo, adesso ci sono i Tecnici che non possono presenziare, ma ci sono ancora i politici, quelli che hanno inviato in Afghanistan Francesco Paolo di ventotto anni. Nessuno era lì. Tanta gente comune che aspettava l’uscita del feretro. E quegli odiosi battimani. Cosa c’è da battere, se non la propria testa contro un muro? Le mani, per chi crede, dovrebbero rimanere congiunte, per pregare. Non è uno spettacolo, la morte. Il silenzio è più assordante. E’ morto un giovane, anzi tre. Una morte privata, non pubblica.
Ecco il nuovo, al termine del Carnevale.
Anche la morte, purtroppo, di questi tempi non è altro che “spettacolo” ed a teatro siamo abituati abattere le mani. Ma la morte, quella vera, straziante, di un giovane soldato, che getta nel dolore più profondo la sua famiglia, che lascia allibito tutto un paese e spegne ogni futuro progetto di vita non è finzione, ma mara e cruda realtà… Questi nostri ragazzi non sono eroi da romanzo o palcoscenico, ma muoiono compiendo il loro dovere, come i tanti che perdono la vita per un incidente sul posto di lavoro, stritolati da un ingranaggio, in fondo ad una cisterna piena di esalazioni tossiche, dall’alto di un’impalcatura. Anzi, sono tutti “eroi” di un Paese che forse non merita, nè apprezza il loro sacrificio! Hai ragione, teniamo le mani giunte o piuttosto in tasca, se non siamo credenti, ma abbiamo il buon gusto di rendere onore alla morte con il silenzio…quel silenzio che tanto spaventa perchè è nel silenzio che l’uomo pensa e nascono la domande.
Silvia, ti ringrazio per avere espresso così chiaramente i tuoi pensieri. Affinità.
Brava Ornella è un de profundis ottimo per seppellire il carnevale che io e tu e tanti altri odiamo, ma non so se queste cerimonie sono inevitabili, la morte continua ad arrivare come in qualunque guerra,ma la nostra è una missione di pace dunque le morti sono incidenti sul lavoro?
Cara Silvana, si può aprire un vasto dibattito. Ma sintetizzo: la morte di questi giovani militari sono “morti sul lavoro”? No. Secondo me, no. Sono morti sul campo di battaglia, provvisti di armi (mai pacifiche), mentre gli altri lavoratori muoiono maneggiando strumenti inoffensivi su un terreno di lavoro che non dovrebbe presentare rischi. Differenze. Un aspetto possono avere in comune: tutti muoiono per un lavoro.
Cara Ornella, “Tutti muoiono per un lavoro”. Il mio paragone consisteva proprio in questo. I giovani che indossano una divisa credo siano abbastanza distanti da ogni retorica di militarismo e credo che imbracciano delle armi quasi loro malgrado. Pieno rispetto per Emergency e le altre organizzazioni umanitarie che operano nelle stesse zone di guerra per curare i feriti e le tante vittime civili, ma vi invito a riflettere su chi inneggia a “dieci, cento, mille Nassiriya” e…che nessuno se ne abbia a male. La mia non vuole essere una provocazione né pretendo di fare ragionamenti di alta politica internazionale (di cui non sono capace), solo il buon senso mi dice che a tutti piacerebbe vivere in un mondo di pace ed il soldato non può essere considerato soltanto uno che fa “il lavoro sporco” e se muore, bhè, c’era da aspettarselo prima o poi.
Cara Silvia, non è facile scrivere chiaramente in poche righe. Almeno per me. Sono una pacifista che non ha nessuna tolleranza per la guerra e neanche per la guerra travestita da pace. Insisto sul fatto che uno Stato di diritto che manda a morire giovani militari ai quali non è riconosciuto neanche il funerale di Stato (come è accaduto a Termini Imerese) e uno Stato che non contrasta la morte di civili sul luogo di lavoro, non è uno Stato basato sulla legalità. La legge sulla sicurezza sui posti di lavoro c’è ed è una buona legge, ma il controllo è quasi inesistente, quindi anche la legge. Quando affermo che la morte dei militari e quella dei civili sono due morti differenti è perché vorrei che i ragazzi comprendessero che arruolandosi si possono macchiare le mani, mentre i civili, lavorando, se le possono solo sporcare. Chi inneggia a “dieci, cento, mille Nassiriya” si nutre di odio e di violenza. Di pacifista non ha assolutamente nulla. Non abbiamo nessun bisogno di persone così disumane.
La complessite0 dell’argomento ttattaro nel tavolo 4 sulla precariete0, ha prodotto non poche difficolte0 di sintesi per il documento finale dovute sia alle differenze di percorsi e pratiche di ognuna di noi, che alla limitatezza del tempo a disposizione, tanto da lasciare ad alcune di noi la sensazione che dei punti fondamentali siano stati trattati superficialmente.Durante la giornata di sabato le testimonianze di lotte autorganizzate sul territorio e non solo, ha portato la discussione su un piano molto concreto; erano presenti molte compagne lavoratrici autorganizzate che negli interventi hanno raccontato perche9 nasce la necessite0 di costruire nei propri posti di lavoro percorsi di autorganizzazione altri rispetto a quelli misti, che troppo spesso vedono la componente maschile protagonista e portavoce di istanze sempre pif9 lontane da quelle delle compagne, promuovendo quindi la lotta autorganizzata delle donne senza delega e con i modi e i tempi stabiliti dalle lavoratrici.L’elemento deleterio che emergeva dai racconti e che ha portato le lavoratrici presenti e non solo, all’aggregazione e alla lotta e8 la precariete0 lavorativa che investe qualsiasi settore distruggendo ogni prospettiva di stabilite0 e di garanzie minime che permetterebbero ad ognuna di noi un’esistenza meno incerta e con maggiore progettualite0, con la possibilite0 di godere di tutte quelle garanzie che ci permetterebbero di riappropriarci anche del nostro tempo che non deve essere ricavato da una flessibilite0 che impone orari e retribuzioni da fame di cui rifiutiamo qualsiasi risvolto positivo, ma una vera riappropriazione delle proprie vite fuori e dentro la sfera lavorativa che solo attraverso la lotta puf2 essere imposta. Proponiamo dunque:- di continuare a ragionare sulla costruzione di un osservatorio permanente sul lavoro e la precariete0, che prenda forma assembleare e scarti l’autonarrazione su blog, perche9 solo attarverso le relazioni reali le donne e le lavoratrici possono prendere coscienza delle loro esistenze ed organizzarsi. – Di ridiscutere sulle forme del reddito garantito per tutte, per il lavoro domestico non retribuito e per tutte le lavoratrici e i lavoratori privati della continuite0 di un salario garantito dal contratto a tempo indeterminato e costrette a vivere una situazione lavorativa sotto il ricatto dei contratti precari le compagne dei castelli