Due Giugno

2 giugno 2012 di: Stefania Savoia

Quando studiavo storia a scuola mi insegnarono molte cose. Tra queste che le grandi parate, soprattutto quelle militari, erano fatte per mostrare la potenza di un paese. L’organizzazione prevedeva la sfilata del meglio delle risorse armamentari, per far sì che il nemico fosse scoraggiato all’attacco, nel vedere siffatte meraviglie dell’arte bellica. Enormi elefanti, cavalli poderosi con armature scintillanti prima, baionette e plotoni a piedi poi, per arrivare a carri armati e bazooka adesso. Mi avevano insegnato così e credo che sia vero. In una rete di dinamiche internazionali che fino a pochi decenni fa non nascondeva che la guerra fosse uno delle tante alternative diplomatiche possibili non mi sembrava fosse niente di strano. D’altronde, guardandosi indietro, non è poi complesso vedere l’evoluzione dei rapporti fra gli stati e per grandi linee accorgersi che, per lo meno a livello teorico, le cose sono cambiate e i paesi fra di loro diversi e lontani cercano modi di comunicazione pacifici e solidali. Sembrava che la logica del”io sono più ricco, più forte e più bello”  fosse superata dopo secoli di speculazioni filosofiche, lotte non violente e istruzione obbligatoria. Sembrava che le parole del Principe di machiavellica origine fossero un cimelio di un mondo perduto a cui si guardava con l’interesse che alla storia si deve. Non che le guerre si siano fermate, ovviamente, non che la macchina infernale che fa girare certe economie sulla distruzione dell’altro si sia placata, certo. Si sperava almeno in un atteggiamento più sobrio, meno evidente, più dimesso per non sembrare sempre più incoerenti verso una carta costituzionale che non troppo tempo fa diceva che la nostra repubblica ripudiava la guerra. Oggi, sulle macerie di un paese in piena crisi economica, piegato da catastrofi naturali e morali, si sta a guardare come i nostri nonni ed avi, la sfilata e lo scintillio delle armature e io mi chiedo in che anno viviamo.

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