l’epicentro del dolore ora è in Emilia Romagna

1 giugno 2012 di: Rosanna Pirajno

Per tutti, perfino per gli abitanti della sfortunata Emilia Romagna, è arrivata come una bomba la rivelazione di un territorio che, sebbene escluso dalle aree ad alto rischio sismico, si rivela fragile e vulnerabile alle scosse di un sisma di media entità ma dal potentissimo sciame. Nessuno poteva sospettare che la operosa e tranquilla, gioviale e civilissima regione sarebbe stata sconvolta, e in buona parte cancellata nelle sue vestigia – le storiche e le recenti della operosità aziendale di cui andava giustamente fiera – dalla violenza di una terra che si rivolta e inghiotte persone e cose con tanto accanimento. Le terribili immagini che circolano in rete ci angosciano, ci addolora il pensiero delle migliaia di persone che hanno perduto affetti, casa, lavoro, aziende, fabbriche, cascinali, abitudini e normalità, e le radici stesse delle comunità insieme ai monumenti simbolo delle identità locali, ai patrimoni di arte e architettura custoditi con cura, ai paesaggi urbani risucchiati dalle voragini e che si teme perduti per sempre. Perdere i propri punti di riferimento procura uno spaesamento straziante, una sofferenza indicibile che si ripercuote sugli equilibri identitari di singoli e collettività. Ma anche per il Paese, la perdita dei “mille campanili” del suo tessuto storico è una mutilazione devastante.

Bisogna dunque riflettere su questo Paese che si dimostra ogni giorno più a rischio: tra frane, alluvioni, terremoti, dissesti idrogeologici, la terra si scuote ovunque e senza tregua, con solo pochi intervalli di tempo che dovrebbero servire ad allestire un capillare ed esteso programma di “messa in sicurezza” di ogni edificio, struttura, montagna, vallone, fiume, costa, ambiente, habitat.

Nel modenese sono collassati, uccidendo operai e imprenditori che erano ritornati al lavoro dopo meno di dieci giorni dalle precedenti scosse, enormi capannoni orgoglio e vanto della laboriosità e inventiva degli emiliani. Non erano a norma antisismica, dicono gli esperti, poiché non prevista in quella zona classificata tale solo nel 2005 e soggetta a vincoli restrittivi dopo il terremoto de L’Aquila del 2009. E i capannoni crollati erano preesistenti a quella data.

Facile pontificare dopo la tragedia, ma l’impressione che si ricava dalle immagini dei danni ai capannoni (già la parola dovrebbe allertare), è che il rapporto dimensione-peso delle strutture fosse comunque troppo sbilanciato, che cioè a fronte delle molto, forse troppo lunghe luci delle campate non corrispondessero coperture leggere, flessibili e concatenate, ma le pesanti e rigide travi cementizie “in appoggio”,  quindi non resistenti alle sollecitazioni orizzontali del sisma, come verificato dai tecnici.

Questo per dire che, giunti al punto in cui siamo con un Paese che si sbriciola ma dove si pensa solo a costruire il nuovo (lucrandoci pure sopra) e pochissimo a manutenere l’esistente, è indispensabile e urgente attrezzarsi contro eventi che, in un modo o nell’altro, se non procurati sono favoriti da una eccessiva pressione antropica sui suoli e da una scriteriata programmazione di opere, grandi e mediopiccole ma diffusissime, pubbliche e private, spalmate anche dove e come prudenza non vorrebbe.

Ora ci si aspetterebbe, per dirne alcune, il blocco della contestatissima alta velocità, dell’inutile ponte sullo stretto, dell’acquisto di cacciabombardieri e droni, comunque della costruzione di opere superflue e “pesanti” per l’erario cui corre l’obbligo, ora più che mai, di concentrare tutti gli sforzi sulla ricostruzione della “memoria collettiva” degli italiani andata in pezzi per ultima, con questo devastante evento tellurico. Oppure gesti significativi come devolvere alla ricostruzione l’8 per mille dei contribuenti, o il prossimo vergognoso finanziamento ai partiti o ancora, a voler sognare, una consistente quota parte degli stratosferici appannagi di politici e manager. Memento: dopo tre anni L’Aquila è ancora un cumulo di macerie, dopo le tronfie passerelle berlusconiane e le sue deprimenti, fintamente innovative, new towns.

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