learning from Favara city

11 luglio 2012 di: Rosanna Pirajno

Sono rientrata dall’esperienza di Favara e vi racconto le mie impressioni. I punti negativi sono quelli di un paesone cresciuto malissimo, senza sprazzi non dico di bellezza e armonia, neppure lontanamente perseguite, ma di “composizione ordinata delle parti” come avrei spiegato ai miei studenti di architettura. Quando a prevalere è il “fai da te” senza alcuna regola formale e volumetrica, per giunta connotato dal “non finito” che denuda il cemento-ferro-alluminio-laterizi di un’edilizia assai ingombrante, quando non ci si è curati degli spazi urbani e la città degli scambi e delle relazioni si consuma nel reticolo di strade carrabili precluse ai pedoni, allora non è il picco della bruttezza raggiunto a Favara che conta, ma la diffusione di un “modello” che ha inquinato il concetto stesso di “configurazione urbana” in troppi centri di nuova espansione.

Le buone impressioni riguardano, di contro, le energie positive che vanno emergendo in opposizione allo smembramento dei rapporti con il sito e con i suoi abitanti, da alcuni abitanti di nuova generazione sofferto come una recisione delle radici alla quale occorreva reagire in tutti i modi, e sono difatti abbastanza variegati i processi di riqualificazione del tessuto sociale e culturale che fermentano da qualche tempo, non a caso, tra i cortili e le “venule” (e la bellissima, e poco fruita, piazza Cavour) del nucleo storico. Dove è nato e si va dilatando, oltre l’attività artistica della Cultural Farm di Andrea Bartoli per la quale, come avevo anticipato, Anne Clémence de Grolée ha concepito un’opera di commovente suggestione, appunto il fermento di giovani che chiamerei “nativi di ritorno” per essere rientrati dopo laurea o studi superiori, non più disposti a subire decisioni e situazioni calate dall’alto, senza far nulla per migliorare le condizioni di vita comune.

E quindi fondano l’associazione culturale Nicodemo che già nel nome –vittoria del popolo- condensa la voglia di riscatto che nel giornaletto “in folio” diventa l’editoriale “Non ci fermerete più” (lo firma Pasquale Cucchiara), e nelle iniziative si dipana tra mostre, conversazioni, rassegne e, in definitiva, voglia di conoscere e di “fare rete” con analoghe realtà propositive. Due giovani donne sono alla presidenza, Annalisa Agrò, e alla segreteria, Samanda Virone architetto, a dimostrazione – lasciatemelo dire – della prevalenza del femminile dove c’è da “prendersi cura” di qualcosa, in questo caso del risveglio di una comunità. Le terremo d’occhio. (www.associazionenicodemo.org)

Tornando alla bella opera de Grolée, alla istallazione di vecchie sedie letteralmente “legate” da ragnatele di lana rossa all’involucro di una antica taverna dai muri scrostati, l’artista affianca un video di memorie di anziani uomini e donne superbamente ripresi dalle foto di Gero Viccica e Nadia Castronovo. Sono memorie, raccolte in mesi di lavoro con ex solfatai e non solo, che raccontano di un mondo di fame e povertà scomparso e non certo rimpianto, se non per un sentimento di “fratellanza” scomparso anche questo con la modernità («eravamo poveri ma affiatati, tutti fratelli e sorelle» dirà un anziano intervistato), che bisognerebbe mandare per le scuole, nei cineclub, nei circoli culturali se ne esistessero più, per riflettere sul “modello di sviluppo” che abbiamo impostato per sostituire miseria e arretratezza con benessere e sviluppo, senza mai fare un bilancio che ci consentisse di aggiustare qualche tiro troppo sbilenco. E anche quando gli artisti lo fanno con grande intuito ed eccellenti risultati, come Anne Clémence de Grolée con i suoi fili di lana e i ritratti-interpreti di sentimenti profondi, si può star certi che le parole dell’arte resteranno, come succede spesso, inascoltate come cassandre.

(foto della istallazione de Grolée di Peppe Cumbo, per gentile concessione)

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