l’uomo che sapeva di dover morire
Che cosa è accaduto veramente quel primo luglio del 1992, giorno in cui Paolo Borsellino scoprì i buchi nel sistema di sicurezza delle sue indagini, che si rivelarono note anche a terzi non ufficialmente implicati? Questa è una delle domande che si pongono, a venti anni di distanza dall’attentato del 19 luglio, i magistrati che indagano sui nuovi, torbidi e drammatici, elementi emersi su un possibile intreccio della politica, nelle sue più alte espressioni, con la mafia, e che prefigura un patto, una trattativa a cui Borsellino si opponeva e per questo venne eliminato.
Ieri ho partecipato alla marcia delle Agende rosse culminata nell’atrio di Giurisprudenza, dove hanno preso la parola esponenti della società civile e della magistratura, tra quelli acclamati nel corteo con lo slogan “Di Matteo Ingroia Scarpinato siete voi il nostro, nuovo, Stato”, che la dice lunga sul grado di credibilità delle istituzioni, in questo momento di grave sbandamento che stiamo soffrendo. Dal bel discorso di Ingroia estraggo le parole che più hanno colpito l’uditorio: «se la magistratura, pur con tutti i suoi limiti e inadeguatezze, è riuscita ad entrare nella stanza della verità, giacché è riuscita a penetrarla anche se l’ha trovata buia, con le finestre sprangate e la luce staccata, un minimo di rispetto lo merita» dato che vuole capire, continua, l’allergia alla verità di cui soffre certa politica che non fa un passo avanti nelle inchieste sulle trattative ipotizzate tra Stato e mafia, mentre chiede ai magistrati di fare passi indietro sulla strada della scoperta della verità.
Faccio mie, nostre, queste parole nel giorno della commemorazione dell’assassinio di Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina.