cosa ci dice, oggi, un film del 1971 con Sordi detenuto
Nel film “Detenuto in attesa di giudizio” (1971) un Sordi grandioso esordisce con la frase «Vi porto a vedere il più bel paese del mondo: l’Italia», peccato che la retorica duri appena l’attimo dello sconfinamento. Accanto alle bellezze del paese, ne conoscerà fino in fondo le brutture: lo squallore della realtà carceraria, le pastoie burocratiche ai limiti del grottesco, la perdita progressiva della propria dignità. L’interprete, ing. Di Noi, diventerà anche, suo malgrado, protagonista di una ribellione carceraria e, ritenuto diretto responsabile, sarà trasferito in un carcere di massima sicurezza, con detenuti violenti e recidivi. Vivrà in un clima di perenne e inaudita violenza che gli lascerà il segno per sempre. Alla fine riuscirà a provare la sua innocenza.
È vero, i tempi sono cambiati, ma il film-viaggio attraverso il girone infernale di un uomo qualunque intrappolato tra burocrazia lenta e persone piene di pregiudizi, tocca temi ancora attuali. A distanza di decenni, il film è in grado di scatenare ampi dibattiti sulla funzione della “giustizia” e sulla situazione delle carceri, rimandando a tanti interrogativi sul nostro rapporto col mondo della giustizia. Gente spensierata, in alcune scene, si accinge ad insultare i detenuti con cori di condanna giustizialista, racchiudendo un po’ della nostra immagine anche contemporanea nei riguardi dei detenuti e del nostro superficiale e spesso pragmatico modo di assimilare concetti come condanna e detenzione.
Nella sequenza della rivolta carceraria, invece, vengono magistralmente sottolineati i diritti negati della giustizia; le responsabilità dell’altra parte, quella della corruzione di un sistema giudiziario sordo alle esigenze di prigionieri che reclamano a ragione i loro diritti. L’atteggiamento delle guardie che ostentano cinismo e insofferenza è rappresentato come simbolo di una società individualista, che professa l’apologia del reato sempre e comunque come “privazione”, con il conseguente annientamento morale degli individui, e naturalmente senza distinzione fra “Giudicati” e “ In attesa di giudizio”. L’avventura del protagonista, che mette a nudo i disastri emotivi e morali di una persona innocente, ci fa soffrire sino alla fine: si soffre e si aspetta la conclusione della vicenda con una forte compenetrazione dolorosa. La consolazione è presente, comunque, pensando che trattandosi di un film, ci sarà un finale “giusto”, come da copione. Eppure non possiamo disconoscere l’ansia che ci pervade durante la visione di un film che, se anche datato, ritrae i giorni nostri. Nei più bei paesi di tutto il mondo, come in Italia, l’attesa di giudizio è un’odissea che potrebbe colpire, come una roulette russa, tutti i cittadini impotenti senza la certezza, purtroppo, del “lieto fine” che, come sappiamo, è prerogativa solo dei film.
Rivedere un film del genere cara Daria ci fa vedere come non siamo andati avanti ma forse indietro, io temo la rivoluzione forcaiola, perché o l’italiano in massa è assolutamente privo di carattere o un giorno si scenderà nelle piazze per colpire tutti questi mascalzoni che dovrebbero governarci.
Grazie, Alba.
Dopo aver scritto l’articolo, qualche giorno fa, ho pianto di rabbia davanti al televisore, guardando la fiction sul caso Tortora, Nessuno ha pagato mai per questa vergognosa ingiustizia, naturalmente, e questa volta non era solo un film.