stregata da Goliarda Sapienza

29 settembre 2012 di: Enza Longo

Un’amica di Mezzocielo alla quale avevo raccontato con entusiasmo della mia partecipazione al “Viaggio sentimentale e letterario nei luoghi di Goliarda Sapienza”, svoltosi a Catania dal 14 al 16 settembre, promosso dalla Società Italiana delle Letterate, mi ha chiesto di scrivere le mie impressioni su questa scrittrice. Istintivamente ho declinato l’invito: – Non mi sento all’altezza – ho risposto. Ma il giorno dopo ho scoperto che Goliarda s’era impossessata di me. Il primo pensiero del mattino è stato per lei e quello che avrei voluto dire cominciava ad affiorare alla mia mente con prepotenza. Ecco che, ancora una volta, la magia ed il fascino di Goliarda catturano. Io, costretta dalla vita a mediare, qualche volta a scendere a compromessi, non posso che guardare con estrema ammirazione questa donna che avrebbe potuto avere un’esistenza agiata e il successo che meritava, se solo avesse accettato di scendere a patti con l’ambiente intellettuale, fortemente contaminato da pregiudizi borghesi. Ma Goliarda non ha sfumature. E’ bicromatica, come la sua amata Catania: il bianco del marmo, il nero della pietra lavica.

E la prima contraddizione che mi ha colpito è il suo stesso nome, Goliarda, che evoca l’iconografia fascista e invece le viene dato da genitori che hanno fatto dell’antifascismo la loro ragione di vita. La madre, Maria Giudice, femminista – socialista – segretaria della Camera del lavoro di Torino, che per la sua militanza conosce il carcere e l’esilio volontario, viene mandata dal Partito a Catania dove rincontra Peppino Sapienza, socialista, che ha scelto di essere l’avvocato dei poveri. E’ con (poco) pane e (tanti) ideali anarco-socialisti che vengono nutriti il corpo e lo spirito di Iuzza, come veniva chiamata in famiglia. E’ affascinante l’infanzia di Iuzza. A lei è concesso di trascorrere le giornate scorrazzando tra i vicoli della Civita, tra i bassi di via Pistone. Sorprendente lo spirito d’indipendenza e l’intraprendenza di sta carusa che dagli artigiani del quartiere San Berillo apprende l’arte della vita, impara mestieri e si guadagna qualche lira. E con quei lavori si procura le lire per il biglietto al cinema Mirone, dove vede e rivede il film del suo grande maestro: Jean Gabin.

A 16 anni lascia Catania e si trasferisce a Roma dove frequenta l’Accademia d’Arte Drammatica. Recita a teatro, al cinema con registi importanti, ma, come aveva profetizzato il professore Jsaya, abbandona la carriera d’attrice e si dedica alla scrittura. I due primi romanzi autobiografici, Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno, vengono pubblicati ed inizia a lavorare a L’arte della gioia, durata nove anni, e per la quale Goliarda si riduce in assoluta povertà. Per un furto in casa di un’amica finisce in galera, esperienza che diventerà ispirazione per L’università di Rebibbia. Nessun editore accetta di pubblicare L’arte della gioia, ma i rifiuti non la fanno cadere nell’autocensura: quella è la sua storia; quelli i personaggi che, come i tanti figli che non ha partorito, ognuno ha qualcosa di lei; quella la donna, Modesta, sintesi di tutto il suo universo femminile. Eppure quando L’arte della gioia viene rifiutata, l’Italia è in pieno fermento socio-culturale, studenti e lavoratori stanno conquistando spazi di democrazia, il pensiero femminista determina una vera rivoluzione dei costumi e aiuta il Paese a liberarsi dalla gabbia del perbenismo, la “sinistra”, a cui Goliarda, comunque, appartiene, detiene l’egemonia culturale nel Paese. Perché L’arte della gioia non viene dato alle stampe? No, non è il suo libro indecente, indecente è la sua vita. Non è la scrittrice che viene emarginata, è la donna che viene lasciata sola e sola muore nella sua casa di Gaeta, senza mai sapere quante lettrici ha appassionato ed emozionato la sua Modesta.

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