bello e simbolico, l’auditorium di Renzo Piano per l’Aquila

18 ottobre 2012 di: Rosanna Pirajno

Appena l’ho visto me ne sono innamorata, l’ho trovato bello elegante allegro composto lieve solido deciso risoluto spericolato saldo audace generoso e poi con tante idee in serbo per loro, per gli aquilani che lo hanno accolto con gioia e speranza di rifarsi delle tante sofferenze patite. Se non altro, possono attraversare la zona rossa per raggiungerlo e goderne. Sto parlando dell’auditorium progettato da Renzo Piano e realizzato, e quindi donato a L’Aquila terremotata, dalla Provincia autonoma di Trento. Una Provincia che funziona, che spende bene i soldi dei contribuenti e ne impiega una parte per un’opera utile e ben fatta da regalare a chi non possiede più neppure la casa, è una Istituzione (con la maiuscola) che vola alto sopra il letamaio politico che sta insozzando questo tristo paese. E perciò merita ammirazione e gratitudine, in primis per averci fornito un esempio (di onestà, non fa vergogna specificarlo?) a cui aggrapparci per ripartire.

Poi c’è l’architetto di fama -archistar suonerebbe offensivo- Renzo Piano che dona gratuitamente la sua opera di ingegno, e ce ne mette di fantasia e competenza per pensare un’opera provvisoria senza però che ne abbia l’aria anzi che pena quando si dovrà dismetterla, e quindi ingaggia le migliori maestranze che la facciano perfetta soprattutto nell’acustica a che i Maestri non debbano lamentarsene, e poi c’è il Maestro Claudio Abbado che offre la sua generosa direzione per la serata inaugurale con la impeccabile orchestra Mozart, e infine il presidente Napoletano che dà prestigio all’apertura di un edificio per la cultura nuovo e posizionato in centro, dentro la città vecchia ferita e abbandonata come Prometeo, e che non manca di lanciare una frecciatina all’insana voglia di new towns del cavaliere allora premier, che fortissimamente le volle perché suonava fino il modello british high tech da mostrare alle masse attonite e festanti. Per la ricostruzione ci volevano competenze e sensibilità che non allignano fra le iene ridens (vi torna il dialogo telefonico notturno dei due affaristi, che sghignazzano al pensiero della speculazione su cui buttarsi?) che stanno divorando il Paese. La bellezza di quest’opera dunque, che fa allegria solo a vederla figurarsi a starci dentro per ascoltare le recondite armonie a cui gli aquilani per loro e nostra fortuna non sanno rinunciare (anche se dovranno aspettare ancora un paio di mesi, per gli ultimi lavori di cantiere) risiede quindi in una composita metafora di sapienza architettonica e scienza della ri-costruzione, il cui simbolo è un edificio destinato all’arte più “evanescente” che ci sia, l’arte della musica che Debussy definiva la più perfetta per esprimere “l’inesprimable”. Non un centro commerciale, un centro fitness o uno dei moderni totem urbani che generano i mostri del consumismo materialista su cui si sono gettati registi come Ciprì e Garrone, ma una “scatola” in legno modellata per far vibrare note, sensazioni, armonie per lo spirito. Non so se c’entra, ma mi viene in mente quella strana pretesa delle femministe della prima ora, che reclamavano il pane ma pretendevano anche le rose, il primo per nutrire il corpo e il secondo perché, della bellezza che nutre lo spirito, non si può proprio fare a meno.

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