Basta con Linneo
Essere un individuo significa spesso gestire cosa gli altri intorno a sé pensano sull’essere quel determinato individuo, per cui la pratica dell’esistenza si scontra spesso, si intreccia o semplicemente inciampa e torna indietro sulla teoria (quanto possibile?) dell’esistenza stessa. Per chi nasce con una coppia cromosomica XX, poi, la questione si fa ancora più complessa. Da bambina, devi giocare giochi da bambina, perché proiettarsi in bicicletta su una discesa sterrata e tornare sanguinante potrebbe non essere preso di buon grado. Da ragazza, devi essere discreta e non dire troppe parolacce, per non guastare quell’idea di purezza femminea che chissà quale balorda/o ha ficcato in testa a tutta una civiltà (chapeau, in ogni caso). Da donna matura, devi deciderti ad abbandonare lo status di ragazza così difficilmente conquistato, trovare un uomo, sposarlo e generare (“Quindi hai 32 anni e ancora non sei sposata né hai figli?”, una coetanea mi ha chiesto di recente). Cui seguono i doveri di buona madre, buona nonna, buona vecchia e, presumo, buona morta. Tutto uno stillicidio di istruzioni per l’uso di sé che ovviamente da sé non provengono mica. Ma c’est la vie, essere donne è essere dette, prima di tutto. Essere parlate, definite, rappresentate. Specie da chi non ne avrebbe diritto. Perché possiamo raccontarci disinvoltamente che c’è stato il femminismo, che le donne sono più emancipate, che studiamo, lavoriamo, fumiamo e facciamo quello che ci pare. In realtà pare che ci sia uno zoccolo duro di subordinazione che si manifesta o come violenza da parte maschile o come autosoffocamento di ambizioni e desideri da parte delle donne stesse. Non pochi mesi fa ho scoperto che una mia compagna di piscina, appena diciassettenne, aveva abbandonato il liceo scientifico a malincuore a causa del fidanzato (“Troppi maschi in quella scuola”). Insomma, ci siamo dette tanto, sì, ma quanto ci facciamo dire ancora… Diversi uomini frequentati a vario titolo mi hanno sempre cantato le gioie della maternità, come se i miei dubbi al proposito fossero delle bestemmie nei confronti della mia ‘natura’ (altra parola scivolosissima) femminile. Il mio stesso essere freelance non solo a livello lavorativo ma quasi esistenziale è per molti conoscenti un enigma, un indice di follia. Follia di chi non si costruisce una garanzia sul futuro – qualcuno che non dico ti mantenga, ma aiuti a mantenerti, dei figli che non ti lascino sola quando sarai troppo vecchia e malata perché la compagnia nasca spontaneamente. Lo stesso tempo libero di una donna non sfugge alla vis definitoria dei contemporanei/concittadini e viene anch’esso messo in discussione: la domenica, svegliarsi all’alba per andare in montagna a infangarsi e graffiarsi è così poco womanly rispetto a una passeggiata con gelatino light e shopping al centro commerciale, rispetto alle gioie di una movida insulsa in cui bere, sfoggiarsi, flirtare e bere ancora.
La soluzione, tuttavia, è semplicissima ed efficace: fregarsene e mandare al diavolo tutti. Ma il problema in sé è troppo interessante per non essere preso in esame. Questo problema consiste nel fatto che tutti credono di saper dire cosa non sia da donna (non avere bambini, non essere prive di istruzione ecc.). Ma nessuno sa cos’è, una donna. Neanche le donne stesse – e qui probabilmente schiere di femministe lancerebbero tomi di pesante e forse non così interessante teoria – pazienza! Ed è bello che donne e uomini siano così indefinibili, inafferrabili. Convincersene aiuterebbe sicuramente ad accettare chi queste categorie le ha rifiutate per scelta o per necessità, come transessuali o intersessuali. E in questo modo la frasettina della de Beauvoir – “Non si nasce donna si diventa” –, allora sì che suonerebbe meno retorica e più concreta, perché non si limiterebbe più a suggerire il lavorio psicofisico che affronta una donna XX, ma anche quello più sofferto e impegnativo di una donna XY, la quale accetta di far squartare e rimodellare la sua carne per vedere allo specchio la persona che ha dentro e mostrarla con coraggio al mondo. Chiunque liquidi queste faccende come capricci innaturali e diabolici, dimostra soltanto grandissima insensibilità.
L’impressione finale (per me) è che in fondo il concetto di differenza sia spinoso, pericoloso. Spesso ha combinato guai e poi somiglia tanto a quell’altra brutta parola – in/differenza. E quindi non concludo, ma domando: dopo questa caotica leggerezza che tanto leggera non era, cosa farcene, della differenza?