la scomparsa del prefetto Manganelli, “sbirro gentile”

24 marzo 2013 di: Daria D’Angelo

La valanga di messaggi di cordoglio per la morte del Capo della Polizia Antonio Manganelli è arrivata sia dalle istituzioni che dalle forze politiche e dai sindacati, come meritava un grande servitore dello Stato. Nella sua lunga carriera ha lavorato al fianco dei più valorosi magistrati e di organi giudiziari investigativi europei ed extraeuropei, a cominciare da Giovanni Falcone.

Era definito uno “sbirro gentile”, dopo la fine del terrorismo si era gettato anima e corpo nelle grandi inchieste sugli intrecci politico-mafiosi. Questore a Palermo all’inizio degli anni novanta, è stato nell’aula bunker nel periodo del Maxi Processo. E c’è una vicenda che pochi conoscono, racchiusa in un rapporto della Criminalpol datata 28 marzo 1985: un’indagine di mafia a Milano, condotta da Antonio Manganelli, nella quale è scritto dei rapporti tra Rapisarda e Marcello Dell’Utri, e dei “provati collegamenti tra il mafioso Vittorio Mangano e il Dell’Utri e alla posizione di quest’ultimo quale uomo di fiducia del noto Silvio Berlusconi”. Era il 1985, non era facile scrivere queste cose sul collaboratore del ricchissimo imprenditore Silvio Berlusconi, peraltro mai indagato, amico intimo di Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio all’apice della sua potenza. Le accuse contenute nell’informativa di Manganelli furono rigettate con una motivazione irridente da un giudice che poi sarà indagato per corruzione proprio con Rapisarda. Successivamente però il rapporto di Antonio Manganelli tornò utile nell’inchiesta sui rapporti tra la mafia e Marcello Dell’Utri.

Manganelli ha attraversato momenti difficili, dopo la sentenza per i fatti del G8 del 2001, cercando di garantire la continuità dell’Istituzione e affrontando con forza le condanne definitive per il massacro alla scuola Diaz del G8 2001 e per l’omicidio di Federico Aldrovandi. Inviò una lettera a Patrizia Moretti, la madre di Federico che per anni ha chiesto giustizia per la morte del figlio, in cui le chiedeva perdono e la invitava a un nuovo incontro. «Il suo gesto fu rivoluzionario», spiega ora Patrizia, profondamente dispiaciuta per la scomparsa. Il massimo esponente della Polizia e la donna divenuta simbolo della lotta contro gli abusi di potere, si incontrarono faccia a faccia nel settembre 2011. «Lui scelse di celebrare la festa annuale della Polizia qui a Ferrara, città di Federico, e chiese di incontrare me e la mia famiglia in forma privata». Un’operazione d’immagine? «Macché. Fu un incontro privato, tanto che non mi sento di rivelare il contenuto. Quel giorno ritrovammo la fiducia nella Polizia». Ribadì il suo impegno a voler fare giustizia «Con tutte le cautele del caso, ci disse che doveva aspettare il terzo grado per poter avviare i procedimenti disciplinari nei confronti dei quattro poliziotti. Ma stava lavorando veramente per una Polizia più pulita», continua la Moretti. «Non si disse dispiaciuto solo per quella notte, ma soprattutto per le sospette coperture e depistaggi che seguirono, da lui considerate ben più gravi».

Ha cercato di realizzare il suo proposito di una Polizia più pulita fino alla fine, anche quando la malattia ne aveva fiaccato le forze, senza però riuscire a fermarlo.

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