la tragedia di Misilmeri: parole per dire, occhi per vedere
Chi dirà ai bambini della classe di Gianluca perché il loro compagno non c’è più? Chi saprà spiegarlo? Io non saprei. Perché non si può. Ma vedere la sofferenza, riconoscere la disperazione, sì. Non sempre, ma si può: con altri occhi. Occhi che non negano, che non si chiudono. Non è facile pensare, ammettere che qualcuno a cui vuoi bene, qualcuno che conosci e stimi, sia disceso a tal punto nella voragine del dolore da incorporare in sé il bene e il male, da farsi giustiziere dell’universo ed arrivare ad uccidere chi più ama. E non è facile per gli altri, persone, istituzioni e servizi, cogliere tutte le dimensioni di un disagio psichico e sociale ormai dilagante, senza rete e senza limiti, che si manifesta in gesti auto o eterolesivi ma ha radici profonde e multiformi.
Nei molteplici casi accaduti nelle ultime settimane in Italia di suicidi ed omicidi-suicidi, si riconoscono difficoltà concrete insieme a vulnerabilità particolari in un contesto di generale precarietà e in un clima di sfiducia collettiva senza precedenti; e sembra che le reti relazionali primarie, famiglia, parenti, amici, non riescano più ad accogliere e contenere il disagio, né la persona che soffre a confidare in loro: ma questo non spiega perché alcuni si arrendano al dolore ed altri no. C’è nei primi una sofferenza psichica profonda, spesso misconosciuta o negata: chi uccide i propri figli vede l’esistenza come un buco nero, un pozzo senza fondo di disperazione, e vuole portarli con sé oltre la vita per “salvarli” dalla rovina: un gesto di paradossale “altruismo”. Lo ha detto con sconvolgente chiarezza, poche ore fa, una madre che ha gettato i due figli dal balcone (sono salvi per fortuna): “Non vedevo futuro. L’ho fatto per il loro bene. Spero che muoiano.”
La dimensione di questa sofferenza richiede un’altrettanto grande capacità di comprensione. Noi tutti vorremmo non guardare: fuggiamo istintivamente dall’inspiegabile, da ciò che minaccia le nostre (poche) certezze, da ciò che, forse, tocca nascoste corde oscure. Ma occorre invece imparare a vedere. Con umiltà e coraggio. Affrontare il disagio, non seppellire il conflitto, negli individui, nelle relazioni, nella società. Aiutare e farsi aiutare dai servizi sociali e sanitari, dalle associazioni dedicate. Senza però pretendere di poter prevenire, controllare tutto: perché non esiste la terra senza il male.
L’amore non uccide, mai. L’amore dona, non toglie, tantomeno la vita che si contribuisce a far nascere. Credo che sia solo odio, odio puro, neanche travestito, verso un figlio che ti costringe a fare i conti con le proprie incapacità e le proprie debolezze. Togliere di mezzo uno o due figli è la rappresentazione della propria mediocrità e del proprio egoismo: chi uccide non vuole lasciare vivi i testimoni.
Quando ho scritto “paradossale altruismo” non intendevo giustificare in alcun modo quest’orribile esito di una patologia gravissima. Quello che volevo dire è che bisogna riconoscere, appunto, la patologia, la sofferenza psichica che spesso viene negata o trascurata da chi soffre e da chi gli sta vicino, e purtroppo può condurre ad uccidere. E per farlo bisogna avere il coraggio di vedere le cose come sono, il che non è facile, e di fidarsi e “affidarsi” a chi può aiutare.