il ritratto di D.G. ai tempi del botulino

6 giugno 2013 di: Stefania Di Filippo

Vivere una vita senza portare addosso visibilmente i segni di ciò che si è compiuto, credete che possa rendere felici? Razionalmente la risposta è no, ma l’incremento della chirurgia plastica ci dice il contrario. “Il Ritratto di Dorian Gray” è stato scritto da Oscar Wilde nel 1890, e pone al posto di un chirurgo un pittore, e al posto di un attore un ragazzo bellissimo. Il libro gira tutto attorno al piacere che può dare un dono di natura, o meglio intorno a ciò che si può perdonare ad un dono di natura, cioè un viso incredibilmente bello, e a cosa si è disposti a fare per viverlo il più a lungo possibile. Dorian Gray è un giovane ereditiero musa di un famoso pittore, che un giorno decide di ritrarlo per com’è e non più nella veste di un personaggio di qualche opera o di un qualcuno che non sia altro che lui stesso. Durante la realizzazione però vive la sua come un perfetto signorotto borghese vittoriano. Durante la lettura del libro notiamo che il protagonista è disturbato dai rimorsi per ciò a cui si è sacrificato, per ciò che ha sacrificato per fare sì che qualcun’altro “portasse” addosso i segni delle malefatte che lui aveva compiuto, capiamo che ciò che si manifesta all’esterno, che lascia cicatrici o rughe sulle nostre facce è il giusto risultato per la vita che si è vissuta. Quanti volti non riconosciamo, perché sono stati ritoccati da bisturi che hanno tolto i segni del tempo e non ci permettono di guardare in faccia come la vita ha plasmato le esistenze altrui? Quanti volti pieni di botulino guardiamo, chiedendoci perché le persone si sottopongano a ciò? Siamo circondati da una parte di gente che crede di essere bella, eliminando ciò che la vita gli ha insegnato tra una ruga d’espressione e le zampe di gallina, e dall’altra che crede che non ci sia niente di più bello e dolce, di poter guardare un viso e credere che sia bello, poiché è ciò che dovrebbe essere.

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