innamorarsi in tempo di guerra
Ormai piena estate, all’ombra o al sole, è un momento che la lettura fa da corollario al mio relax, prendo in mano un libro di due anni fa della Mazzantini che non sono ancora riuscita a leggere. E’ una bella esperienza, si capiscono tante cose, ci si interroga sulla guerra, vale la pena parlarne.
Ci sono battaglie esteriori che si confondono e si intrecciano con le battaglie interiori di ognuno di noi, con battaglie che non hanno tempo o spazio, con battaglie che non fanno differenze di classi sociali, come, ad esempio, quella di innamorarsi di un uomo; come, ad esempio, quella di innamorarsi di un uomo durante un assedio di guerra. Questo è uno dei punti focali, se non il motivo, l’origine della serie di eventi toccanti ed imprevedibili che Gemma, la protagonista di “Venuto al Mondo” di Margaret Mazzantini, si ritrova a rivivere, quando, come tutti noi, un giorno viene condotta ad affrontare il suo passato. Complice la telefonata di un vecchio amico, che la porterà ad imbattersi nelle verità e nelle coincidenze che hanno influenzato e portato la sua vita ad essere com’è oggi, anche se lei non ne è mai stata, prima d’ora, pienamente consapevole. E’ la storia della guerra a Sarajevo, che si intreccia con la vita attuale di Pietro, nato lì sedici anni fa, figlio di Gemma, allora ragazzina partita per la Bosnia per un progetto universitario e innamoratasi del “Fotografo di pozzanghere”. Ma potrebbe essere benissimo la storia di ogni ragazzino che sta crescendo in Iraq, di ogni bimbo nato tra una bomba e l’altra con l’aiuto solo dell’umanità di un camice bianco di buone intenzioni. Potrebbe, sfortunatamente, essere la storia d’amore nata tra due cuori diversi, solo perché divisi da una striscia, da una linea di confine decisa arbitrariamente da qualcun altro, potrebbe essere la storia che oggi racconterebbe un ragazzino nato durante la Guerra del Golfo, potrebbe essere la metafora della continua lotta interna ad ognuno di noi, potrebbe essere un motivo di spunto, di riflessione, su ciò che ci sembra lontano mille anni luce, ed in realtà, è più vicino di quanto si possa pensare, che è più vivo e più diffuso di una malattia infettiva e che decima, forse, più vite. Peccato che nessuno se ne curi, e che quei pochi che lo fanno non ricevano un giusto ed adeguato riconoscimento, sia economico che sociale.
Non so se hai citato la Guerra del Golfo a caso, ma ho fatto immediatamente un collegamento con un film appena visto e che segnalo: “Il figlio dell’altra” (Lorraine Lèvy – Francia 2012). In un ospedale di Tel Aviv, in una notte del 1991, nascono due bambini che vengono scambiati tra loro per errore, uno è palestinese e l’altro ebreo.
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