indebito, canti musica e scambi per Segre e Capossela
È fatta di passi questa storia, e di notte, e volti e note. È una storia, il docu-film di Andrea Segre, di incontri e scambi. Calda solitudine del viaggiatore solitario che, ad ogni sosta, trova racconti e vite e musica altrui da scambiare e intrecciare con la propria. È, in effetti, il cammino di un ‘Edipo cieco’ che suona un piccolo strumento, il baglamàs, attraversando il bruciaticcio che forma una crosta sulle città, quando è sera e le città riposano, quando è sera e gli dèi invidiano agli uomini le membra stanche che si abbandonano al sonno, sazie, ebbre, mortali. Ed è la musica, quella musica urbana, è la poesia, sorso d’ambrosia, in quelle umanissime sere, che ci eleva alle altezze divine, per sfiorare quell’immortalità solo addisiata, nella consapevolezza lucida della sua essenza chimerica, inattingibile: in un continuo tendere che ci rende vivi, come titani.
Siamo nella Grecia odierna, e corre l’anno 2012. Il camminare e perdersi conduce un viandante, Vinicio Capossela, nelle taverne di Atene e Salonicco, utero materno, per ritrovarsi. È qui che si perpetua e si consuma l’antica tradizione del rebetiko, dal turco ‘rembet’, emarginato, fuorilegge, o dall’antico verbo greco ‘remvo’, fantasticare: si tratta del blues ellenico, nato negli anni venti, sì, nell’eterna Hellas, e impregnato delle fascinazioni balcaniche, ma ‘utopico’, perché non appartiene a nessun luogo, è di tutti, di tutti coloro i quali, sporchi di quella nera bile, ne siano predisposti all’ascolto. È canto che appartiene all’anthropos, come l’epica, è il canto della crisi che separa. Crisi che travalica le congiunture economiche e storiche e i confini spazio-temporali, per farsi universale e umana, dolce malinconia dell’essere.
E c’è dolore, c’è esilio, in questa musica che diventa lamento in coro che unisce, abbraccio, per curare le spaccature, le ferite della storia. E lo fa con la dignitosapazienza di chi ama, come una madre che accoglie e consola. E culla e madre è questa Grecia rinnegata e disprezzata dalla figlia Europa, che l’ha resa capro espiatorio del fallimento del capitalismo occidentale. Ma, se è vero che questa è cronaca di una morte annunciata all’origine stessa della ‘tragedia’ (‘tragodia’ è canto del capro: mai parola fu più visionaria), il rebetiko è canto d’opposizione a quel potere ‘indebito’ che l’ha fatta indebitare, è musica di resistenza all’omologazione anonima e senz’anima della globalizzazione, all’oblio coatto delle radici identitarie.
«Quando si mangia e si beve, la nostra anima si sbottona e la musica si riceve come un’eucarestia», ci suggerisce la voce fuori campo del viandante-Capossela, che, insieme a Segre, con questo film documentario rende omaggio ai Balcani, alla Grecia di ieri e di oggi, con cui era in debito, come noi tutti, e alla sua musica, mentre ci accompagna per mano, come un Virgilio disincantato o un cantastorie, con un vecchio taccuino, nella preghiera sacra e blasfema delle note dei rebetes, impregnate di fumo d’hashish e di vino, perché il rebetiko è contestazione che si realizza nella solidarietà conviviale del simposio.
È fimmina ribelle questa musica indisciplinata e viva, che parla d’amore anche, aspra.
È urgenza che nasce dal disagio e straripa in canto, incontenibile.
Anche il tuo pezzo e’ musica. Coinvolgente, rutilante.