Il ragazzo dagli occhi a mandorla

7 marzo 2014 di: Letizia Lipari

Il ragazzo ha gli occhi a mandorla. Porta gli occhiali, è minuto, serio. Entra in biblioteca senza far rumore, si rivolge al bibliotecario parlando piano: sta cercando –spiega- del materiale per la sua tesi sulla lavorazione del corallo. Mostra una lista di titoli che gli sono stati consigliati, vorrebbe sapere se è possibile avere quei libri in prestito.

Mi stupisco ancora vedendo un ragazzo con sindrome di Down per le stanze dell’università, ma neanche tanto. Proprio qui, nella Facoltà di lettere dell’Università di Palermo, tre anni fa si laureava Giusi Spagnolo, dottoressa in Beni demoetnoantropologici. É stata la prima ragazza a conseguire il titolo in Italia. Il caso ha voluto che si laureasse proprio il 21 marzo, giornata Internazionale della sindrome di Down.

Un risultato eccezionale, certo, e sicuramente non raggiungibile da tutti: i ragazzi Down – come del resto i normodotati- sono del tutto diversi fra loro per potenzialità, ma soprattutto per attitudini e aspirazioni.

Ma notizie come questa sono importanti perché, al di là del risultato specifico raggiunto dalla ragazza, la laurea, (obiettivo che non ritengo essenziale nella vita di nessuno) mandano un messaggio chiaro: che questi giovani, se opportunamente seguiti e aiutati a crescere secondo le loro predisposizioni e i loro desideri, senza barriere poste a priori, possono conseguire obiettivi, in campo scolastico, lavorativo e sociale, al di là delle aspettative.

Condizione indispensabile perché ciò avvenga è però certamente che il ragazzo abbia alle spalle una formazione, innanzitutto scolastica, adeguata e modellata sulle sue necessità e peculiarità. Lo stesso padre di Giusi Spagnolo, docente di Fisica all’università, ha spiegato come lo straordinario risultato conseguito dalla figlia sia frutto di un lavoro di squadra che ha visto coinvolte la sua famiglia e un’insegnante privata che ha seguito Giusi dalle scuole materne all’università. Ma un simile trattamento è alla portata di tutti? E la ragazza avrebbe raggiunto un risultato analogo se affidata alla sola scuola pubblica? Forse no, per quanto il padre abbia sottolineato il grande supporto dato loro dal centro per la disabilità dell’Università di Palermo.

Sembra infatti che la scuola italiana stia perdendo la capacità di ammorbidire le differenze dovute al contesto socio-culturale di provenienza, tendenza tanto più grave se si parla di quel caso estremo di differenza che è la disabilità. Togliendo progressivamente le risorse per fare integrazione, e poi anche quelle per fare recupero e lavoro in gruppi, vanno avanti quelli privilegiati intellettualmente ed economicamente.

E mentre si parla di integrazione del disabile, arrivano notizie che sembrano andare in direzione opposta: come quella della delibera approvata dal Consiglio comunale di Palermo lo scorso 22 maggio, con oggetto l’”istituzione di una scuola materna per bambini affetti da sindrome autistica”, in pratica, una “scuola speciale” che chiuderebbe le porte all’integrazione fra bambini disabili e normodotati nei primi delicatissimi anni di formazione. E se la proposta è stata in seguito corretta davanti alle polemiche di coloro che paventavano la formazione di “classi ghetto”, restano, nelle scuole siciliane come in quelle del resto d’Italia, i problemi di normale amministrazione con cui le famiglie dei bambini disabili devono vedersela ogni giorno: in primis, l’insufficiente numero di ore di sostegno e il serrato turnover delle insegnanti che impedisce la necessaria continuità didattica.

2 commenti su questo articolo:

  1. Rosanna Pirajno scrive:

    bel pezzo scritto benissimo, brava

  2. Letizia scrive:

    grazie mille Rosanna

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