che c’entra, chi nnicchi-nnacchi?

7 maggio 2014 di: Rosanna Pirajno

Ho per le mani un delizioso libretto che da «delicato atto d’amore di una figlia per il proprio padre», come lo definisce Gaetano Basile in prefazione, vira in uno scanzonato breviario di “sicilianitudine” espressa nelle forme più argute e sapienti dei modi di dire, dei motti e delle sentenze con cui ildialetto siciliano liquida paradossi altrimenti indicibili. E già dal titolo, quel “Chi nnicchi-nnacchi?” che con molta probabilità si dovrà tradurre ai siciliani di ultima generazione, il libretto denota l’inarrivabile fantasia di un popolo che ha imparato a superare avversità e soprusi con l’ironia e la strafottenza condensati in un dialetto che si è fatto lingua.

L’autrice è Rosemarie Tasca d’Almerita, figlia minore del conte Giuseppe “uomo di campagna” che delle sue tenute di Regaleali a Sclafani, profondo interno siciliano, ha fatto il regno del primo vino isolano da esportazione, e la raccolta di proverbi e detti emerge dai quadernetti su cui l’adolescente Rosemarie appuntava lemmi del lessico famigliare che il padre portava in casa e sui campi, qui illustrati con altrettanta arguzia da Gabriella Saladino mentre Renata Pucci di Benisichi – che Signora della sicilianitudine lo è per elezione e dedizione – le consegna un tenero ricordo d’infanzia e Salvatore Nicosia una raffinata post fazione a chiudere la già citata prefazione di Basile.

In tempi di sfrenato nazionalismo non sembri inopportuno l’elogio di un lessico famigliare che si intreccia con il linguaggio corrente, o almeno con quella che era, prima dell’avvento della televisione e della lingua italiana livellatrice, la “parlata” comune a nobili e contadini che con quella raccontavano un mondo che su piani diversi li identificava. Come raccontare, infatti, se non con le espressioni più genuine del parlare e del gesticolare dialettale l’appartenenza ad una civiltà di antiche tradizioni, e con queste l’attitudine di un popolo a sopportare invasioni e conquiste senza rimanerne piegato, ma rialzandosi anzi indenne dopo la piena perché «càlati juncu ca passa la china» come saggezza popolare vuole – difatti si apparenta, mi viene da pensare, con il napoletano «addà passà a nuttata» – e registra nel dialetto-lingua che quella saggezza sa riprodurre. Sulla mancata, presente frequentazione dei nostri svariati dialetti, e della loro sagacità espressiva con cui ci s’intendeva a meraviglia, oramai possiamo soltanto sospirare il fulmineo «cu n’appi n’appi, i cassateddi ri Pasqua», e non traduco.

Rosemarie Tasca d’Almerita, Chi nicchi-nnacchi? Detti di casa mia e non solo, Margana edizioni, pag 62, € 7,50

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