la prima donna laureata è del nordest

13 giugno 2014 di: Francesca Diano

Un tempo il Veneto, oggi spesso confuso con il Nord Est, o Nordest, dell’effimero boom economico, era portato ad esempio di onestà, sobrietà, impegno nel duro lavoro e semplicità di vita. Ma anche cultura all’avanguardia. Cose ormai del passato, a quanto si vede in questi giorni. La gemma scintillante di Venezia, l’antichissima tradizione internazionale dell’Università di Padova, le raffinatezze palladiane di Vicenza, la venusta Verona e la vitalità godereccia della Marca trevigiana, davano ancor più risalto alle antiche virtù delle genti del contado che, del resto, era stata zona depressa e povera fin dopo la seconda guerra mondiale.

Nel 1558 infatti, il grande mecenate Alvise Cornaro, veneziano d’origine ma padovano per buona parte della sua lunga vita, diede alle stampe la prima parte di un trattato intitolato La vita sobria, in cui consigliava morigeratezza di costumi e di abitudini quotidiane per mantenersi in buona salute e raggiungere un’età veneranda. Morì in effetti a ottantadue anni – anche se per vezzo se n’era aggiunti sedici in più. Ma che non sempre una vita sobria e morigerata sortisca gli stessi effetti, lo dimostrò una sua discendente, Elena Lucrezia Corner Piscopia (Venezia 1646 – Padova 1684) che forse è più nota come la prima donna laureata al mondo. Elena era figlia del ricchissimo Giovan Battista Cornaro, o meglio Corner, Procuratore di San Marco e di una donna di modestissima condizione, (il che costò a Giovan Battista il patriziato) riconosciuta però dal padre come i suoi sei fratelli. A sette anni era già un prodigio di intelligenza ed erudizione e suo padre non risparmiò potere e denaro per assicurarle i migliori maestri sulla piazza. Imparò il latino, il greco antico e moderno, l’ebraico, l’inglese e lo spagnolo e studiò teologia, filosofia, matematica, scienze naturali e insomma lo scibile. Ma avrebbe voluto farsi suora. Non aveva una natura incline al matrimonio e nemmeno alle cose del mondo, ma se avesse preso i voti non avrebbe più potuto studiare. Così, a diciannove anni, si fece oblata benedettina, il che le assicurava sia tranquillità per i suoi studi, sia di mantenere il voto di castità fatto a sette anni. Divenne membro di molte accademie famose, studiosi di tutta Europa la contattavano per discutere con lei, ed ebbe i migliori maestri dello Studio padovano.

Così, dopo aver dato le più alte prove di quanto la mente femminile potesse eguagliare e perfino superare quella maschile, il padre chiese all’Università di Padova che Elena potesse laurearsi in teologia, la disciplina che lei più amava. E l’Università – Universa universis patavina libertas è il motto dello Studio di Padova – diede il suo consenso. Fu il Vescovo di Padova, Gregorio Barbarigo, (recentemente santificato da Giovanni XXIII…!) che era anche cancelliere dell’università, ad opporsi in ogni modo e con violenza. Figurarsi se una donna è in grado di ragionare di questioni teologiche! A dire la verità, a Elena la laurea non interessava affatto. Ma a suo padre sì. Il Corner, per il potere che aveva, ottenne però che la figlia potesse laurearsi in filosofia. Elena tenne la sua dissertazione il 25 giugno 1678 e le fu conferito il titolo di Dottore in Filosofia. Per la prima volta in una qualunque università del mondo. Ed è il trionfo. Elena è famosa ovunque in Europa.

Molte furono le circostanze che portarono Elena al suo primato. La sua mente prodigiosa, la sua ostinazione e la dedizione agli studi, un padre dalla mente aperta e che l’ammirava immensamente, ma che vedeva in questo anche un modo per far parlare in eterno della famiglia, allora ricca e potente. Morì a trentotto anni, forse di tubercolosi e chiese che tutte le sue carte e i suoi scritti fossero bruciati. Il che fa pensare che li ritenesse cosa troppo terrena. Ne sopravvissero alcuni, che Benedetto Croce liquidò come ciarpame. Giovan Battista volle erigere un monumento sepolcrale per la figlia nella Basilica del Santo. Ma il monumento non fece a tempo nemmeno a prendere la polvere, perché l’ultimo fratello di Elena, cedendo alle pressioni dei buoni fraticelli antoniani, perché il monumento a quella donna venisse smantellato, lo fece e, avendo bisogno di soldi, spendaccione che era, pensò bene di vendersi le statue di filosofi che lo ornavano e quella stessa della sorella.

Su questa donna, di cui l’Italia dovrebbe andare orgogliosa, cadde rapidamente il silenzio. La sua statua fu recuperata solo alla fine del 18° secolo da una nobile veneziana, che ne fece dono all’Università, dove ancora si trova. Poco visibile, è ai piedi dello scalone che conduce in Rettorato nel Palazzo del Bo’, capolavoro cinquecentesco del Moroni. Sul pianeta Venere un cratere porta il suo nome.

3 commenti su questo articolo:

  1. Francesca scrive:

    Grazie Rosanna dell’ospitalità. Elena è vissuta in un’epoca lontana e quello che di lei racconta la sua vita fa supporre che la sua sete di conoscenza non avesse alla base una volontà di emanciparsi dal mondo maschile o di applicarla a fini pratici. Lei si sarebbe fatta serenamente suora se questo le avesse permesso di continuare i suoi studi. No, Elena amava il sapere per il sapere, fino a consumarsi. Ebbe la fortuna di poterlo fare, per la serie di motivi che ho detto, ma questa sete inesauribile e libera da ogni secondo, pur nobile fine, ne fa un esempio ancora più significativo del perché un certo potere maschile le si oppose. Era quella libertà che faceva paura. Che fa ancora paura.

  2. Rosanna Pirajno scrive:

    … e difatti ho pensato come sempre alla orribile fine di Ipazia, scienziata di grandissimo valore invisa alla chiesa in quanto donna che trasgrediva la regola del silenzio e della sottomissione: fu letteralmente squartata da monaci maschietti di nessun valore che si arrogarono il diritto di agire in “nome di” un Dio che si erano costruiti a propria immagine e somiglianza, cioè meschino e vendicativo e ovviamente misogino. Il papa che ordinò la sua eliminazione fisica fu fatto poi santo, manco a dirlo….

    • Francesca scrive:

      Già…. i Padri della Chiesa e il deforme impianto con cui hanno snaturato completamente il senso dell’insegnamento originario. Nessuno meglio dell’antropologa Ida Magli, una studiosa che, se fosse nata in qualunque altro paese diverso dall’Italia, sarebbe celebrata e onorata, lo ha ben chiarito in “Il mulino di Ofelia” e “Gesù di Nazareth”, due opere che ogni donna dovrebbe leggere.

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