assolutamente sì, la lingua che si adegua

8 ottobre 2014 di: Marina Gasperini

Assolutamente sì, i luoghi comuni linguistici sono diventati insopportabili, contenitori vuoti, insignificanti, anzi significanti di un’assenza totale di empatia. Lo scopo non è più entrare in comunicazione con l’altro, ma piuttosto riempire il silenzio assordante dell’indifferenza, dell’abitudine alle ingiustizie, alle arroganze, ai fanatismi di ogni sorta. Tutto deve essere liscio, anodino, politicamente corretto, espresso tra virgolette e queste virgolette nell’espressione verbale devono anche essere mimate, onde significare che non ci si assume la responsabilità di ciò che si dice.

Non si osa più parlare di nuovo statuto del lavoro, si preferisce dire job act. Si spera così che i vari anglicismi, anche se, o forse soprattutto, pronunciati all’italiana, siano il nuovo “supercalifragilistichespiralidoso” che fa andare giù anche le pillole più amare.

Qualche anno fa, Ornella Castellani Pollidori aveva coniato il termine «lingua di plastica», cioè composta di materia scadente, inerte, inquinante. Oggi questa lingua si è generalizzata ed estesa nella lingua scritta come nell’orale, per cui un panorama non può essere che mozzafiato; un grido è sempre d’allarme; un avvenimento importante comporta uno tsunami; una risposta è assolutamente positiva o negativa; un movimento o un’opinione è trasversale e così via. Nel fastidio che provo difronte a tale mancanza d’interesse per le tante possibilità di scelte linguistiche che permetterebbero di comunicare più efficacemente, mi ritorna in mente la citazione preferita del mio professore, docente di critica letteraria alla Sapienza di Roma, Mario Costanzo: «Non importa quale bandiera sventoli sulla cittadella, purché la forma sia rispettata». Era l’idea portante dei formalisti russi, i quali sostenevano l’importanza delle strutture linguistiche nella costruzione di un’opera letteraria. Il grande Flaubert avrebbe voluto scrivere «un romanzo su niente», staccato dagli avvenimenti esterni, basato solo sul piacere dello stile. Siccome, però, la forma non è altro che la messa in parole di un pensiero e di una visione del mondo, i romanzi di Flaubert rappresentano la realtà storica e sociale della sua epoca con uno stupefacente realismo. Mi permetto allora di chiedere agli esperti in comunicazione di ogni sorta, ai giornalisti e anche agli scrittori di essere un poco più precisi e creativi, se vogliono incarnare qualcuno di interessante da ascoltare o da leggere.

1 commento su questo articolo:

  1. silvia scrive:

    Bell’articolo. Credo che un linguaggio omologato corrisponda ad un pensiero fondamentalmente pigro. E’ molto più comodo ricorrere a frasi fatte e preconfezionate, come tanti cibi precotti ed in scatola, piuttosto che esprimere un’idea originale e personale. Una volta si diceva che la Televisione avesse insegnato agli italiani a parlare, ora noto con sempre maggiore fastidio da parte di tanti giornalisti/cronisti un modo di esprimersi sciatto ed approssimativo, mentre in tante trasmissioni si susseguono tanti BIP a coprire insulti ed improperi….mi fanno pensare ai fumetti che leggevo da bambina: BANG, GULP, SIGH. Altro che recessione! Questa è regressione!!!

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