Greta, Vanessa, e “Je suis Charlie” La libertà comprata. La solidarietà attiva da “La Spampa” del 18.01.15
….1) Chi glie l’ha fatto fare? Sconcerta, ma soprattutto amareggia, che questo attacco si scateni appena pochi giorni dopo la mattanza dello “Charlie”, quando fiumi di solidarietà parolaia hanno invaso ogni giornale e ogni possibile testimonianza. Fin che si tratta di vendere la propria solidarietà con belle e sentite parole, l’adesione è corale, perfino convinta e convincente. Però, quando poi questa solidarietà comporta l’assunzione diretta di una responsabilità, e dunque il costo che questa assunzione obbligatoriamente impone, allora partono i distinguo (“velleitarie”, “ma perché non fanno le volontarie in Italia” etc) e la presa di distanza. Non si può dividere il terreno della solidarietà, quella offerta alle vittime della libertà di stampa non può essere diversa da quella offerta a chi si impegna ad aiutare le vittime di una guerra. Astratta, virtuale, o invece concreta, fattuale: la solidarietà è sempre la stessa; e se noi facciamo distinzioni, finiremo soltanto per mostrare quanto emotivamente sincero possa anche essere l’impegno del nostro contributo (i cortei, la firma degli appelli, le dichiarazioni di sostegno) e però anche quanto siamo poi incapaci di assumere il carico reale che quel contributo può chiederci quando si tratta di passare dalle belle parole al gravame pesante di un impatto diretto con la realtà.
2) Ne valeva la pena? Mi verrebbe da dire, anzitutto, che ne vale sempre, la pena. Un impegno speso con un fine alto – che sia la solidarietà alle vittime della guerra, o che sia il progetto del giornalismo di aiutare a conoscere per capire – va sostenuto e appoggiato senza alcuna riserva. Ovviamente, questo impegno deve essere costruito con una solida struttura d’impianto: in guerra si muore davvero, non è una finzione da cinema o tv, e dunque è prioritario prepararsi per ridurre al massimo le probabilità di un “incidente”. Un reporter che va in guerra studia anzitutto i dossier di conoscenza, i soggetti che operano sul campo, il controllo del territorio, le armi usate, le tattiche utilizzate, e poi parte con il suo bagaglio di esperienza tentando di trovare un punto accettabile di equilibrio tra la dimensione del pericolo e il dovere di testimoniare direttamente una realtà per poterla poi raccontare credibilmente. Non sempre gli va bene (l’anno scorso sono stati ammazzati 65 giornalisti, e 750 negli ultimi 10 anni), ma “vale la pena” provare perché quel lavoro produce conoscenza, che resta comunque il fine ultimo del giornalismo. Parimenti, per i volontari il loro dovere e’ di trovare un punto di equilibrio tra il loro altruismo, la spinta della solidarietà attiva che li motiva, e però i pericoli cui vanno incontro…La sola critica accettabile può riguardare, dunque, una preparazione insufficiente – quando questo sia il caso – ma null’altro: le ragioni di un impegno prevalgono sempre e comunque su qualsiasi cinismo, su un presunto realismo negativo, sulla preoccupazione di “evitare” piuttosto che di “fare”.