le parole dell’odio
Sul Venerdì di Repubblica n.1402 leggo un articolo di Vittorio Lingiardi, psicologo e psicoterapeuta, sui risultati di un’indagine che, attraverso l’analisi di milioni di messaggi scambiati in Italia via Twitter nel 2014, ha ricostruito una “mappa dell’intolleranza” analizzando la presenza e la distribuzione di insulti e frasi di incitamento all’odio nei confronti di omosessuali, disabili, donne, immigrati ed ebrei. La ricerca, condotta dall’associazione “Vox – Osservatorio italiano sui diritti” in collaborazione con i dipartimenti di Diritto pubblico, di Psicologia dinamica e clinica e di informatica di tre atenei italiani, ha consentito di estrarre, geolocalizzare e studiare il contenuto di più di 1.800.000 “tweet” grondanti offese, minacce, disprezzo, intolleranza emessi nell’arco di otto mesi.
I risultati appaiono sconvolgenti: gli stessi limiti dell’indagine, costituiti dal fatto che chi usa Twitter è una minoranza non rappresentativa dell’intera popolazione, e che non tutti i “tweet” sono geolocalizzabili, fanno pensare che la realtà sommersa sia ancora peggiore: gli utilizzatori di questo social network non sono certo i meno istruiti tra gli italiani. Ma omofobia, razzismo, antisemitismo, discriminazione dilagano su tutto il territorio nazionale, con differenze significative: ciò che mi ha più colpito è che al primo posto nella classifica delle persone odiate ci siamo noi donne: non un gruppo, non una minoranza: la metà, e oltre, dell’umanità.
I “tweet” misogini sono più di 1.100.000, più del 60% del totale. Al secondo posto (può meravigliare molti, ma non gli operatori sanitari e sociali) ci sono i disabili, poi gli immigrati, gli omosessuali, gli ebrei. Spiccano nella mappa dell’odio la Lombardia e, in genere, le regioni padane, ma anche varie zone del Centro e del Sud, come la Campania, vi si distinguono. Ed anche in Sicilia, l’intolleranza non manca, in specie la misoginia. E, quasi sempre, le offese passano attraverso la dimensione corporea: «corpi sessualmente disprezzati, deformati (…) verbalmente picchiati o stuprati. Si tratta di un bisogno primitivo, non elaborato, ma evacuato su gruppi che culturalmente rappresentano ciò che è considerato debole o inferiore» commenta Lingiardi. O forse, anche o piuttosto, ciò che si teme superiore? Ciò che insidia un presunto potere, ciò che rivela un vuoto interiore, frustrazioni inconfessate, una profonda debolezza? In ogni caso, è sempre più urgente che l’angoscia che si prova di fronte a queste evidenze si traduca in azioni positive contro l’intolleranza. Perché ciò che è pronunciato è annunciato. E potenzialmente agito. Le parole possono diventare pietre, non metaforicamente.
Secondo me ci sono due fattori che concorrono a produrre questo impressionante fenomeno. Non avendo a disposizione ferri del mestiere sociologici, li chiamerò “base culturale” e “momento psicologico”, poi magari hanno anche un nome tecnico ma insomma, si fa per capirsi. La base culturale è quella di un paese che nella sua storia moderna non ha mai brillato per istruzione di massa e che dalle ultime indagini rsulta afflitto da un semianalfabetismo di ritorno, come possiamo quotidianamente esperire sui social networks. I concetti di parità di diritti e dignità si sono fatti largo a fatica e con difficoltà in un paese dalla scarsa propensione alla lettura, con una pesante presenza vaticana e una consistente eredità machista-fascista. Su queste fragili basi si è abbattuto un momento psicologico che mi sembra universale, la sindrome da assedio/minaccia unita a una crescente irrazionalità. La si nota nella mancanza di fiducia reciproca, nel vedere pericoli ovunque, i rom, gli extracomunitari, l’isis, gli illuminati, i rettiliani, il livello di paura è cresciuto a dismisura, e la paura scatena istinti primordiali: attacco o fuga. Non potendo, in genere, fuggire, il pensiero del minus habens è costantemente proiettato all’attacco. Principalmente verso chi è più facile da attaccare, o logico considerata la carente cultura di cui sopra. Quindi categorie deboli o viste comunque come “altre”, il debole o il diverso, come sempre nei momenti bui.
Poca sorpresa quindi, ma molta amarezza, e allarme.
Gentili redattrici, giornaliste di questa rivista così ben, dal mio punto di vista, strutturata, per quello che ho potuto leggere dal momento in cui mi è stata presentata.
Intanto Vi faccio i migliori complimenti e auguri per tanti successi indubbiamente meritati e faticati. L’articolo di cui sopra mi ha fatto regredire con la memoria a più di qualche anno fa, quando bazzicavo per una indagine scientifica tra il policlinico e l’Ospedale Psichiatrico di Via La Loggia. Mi colpì molto il feedback che avvenne tra me e due medici che mi raccontarono il loro rincrescimento nel non potere autorizzare l’accesso ai malati terminali di partner che non fossero nè coniugi nè familiari e che dovessero vivere gli ultimi istanti di vita in ulteriore frustrazione e dolore insieme ai loro cari, dei quali possiamo solo immaginare il dolore, l’amarezza, la disperazione. Non solo mancherà ai malati il sostegno adeguato, ma anche ai loro cari, che verranno privati e deprivati di un loro diritto naturale e inalienabile. Quando non capita a noi o non siamo competenti in materia psicologica, non riusciamo a capire realmente il dolore che si prova in casi come questi. I soggetti del racconto erano coppie gay e non erano casi isolati, purtroppo. A me adesso è dato un difficile compito: smuovere i concetti e la riflessione in un paziente che sembra ostinatamente “omofobo”!
Noi psicologi e Voi giornalisti abbiamo il difficile compito di risvegliare le coscienze, promuovere il buon uso dell’intelletto e di tutti i nostri patrimoni o pattern, avvalendoci principalemente delle parole, così potenti e determinanti.
Auguro a tutti Voi, dunque, Ottimo lavoro!
Laura Valenti
Psicologa Clinica