Una riflessione a puntate. La violenza diffusa
Mentre ci esortiamo reciprocamente a non dimenticare, gli eventi più terribili faticano a non essere travolti dalle nebbie della dimenticanza. Non so quante persone oggi riflettano ancora sulla strage di Parigi e cerchino di capire gli oscuri e profondi perché di quel massacro.
Cosa realmente esso ha significato? Uno scontro mortale tra due culture, che ha trovato il massimo punto di conflitto in rapporto al principio della totale libertà di pensiero e di espressione (che costituirebbe un valore “occidentale”)? La lungamano di un imperialismo religioso di tipo nuovo, apparentemente senza gerarchie, ma incarnato in una moltitudine di singoli, che possono uccidere chiunque e in qualsiasi momento? Il rifiuto, da parte di piccole minoranze giovanili, di una libertà faticosamente conquistata e difficile da gestire (vedi il bell’articolo di Massimo Recalcati su “Repubblica” del 7 febbraio scorso) e la ricerca da parte loro di un ideale assoluto dentro cui arroccarsi fino alla morte? La riconquista da parte degli uomini del predominio sulle donne, che li rassicuri sulla propria forza ed autorità?
Ho tentato le settimane scorse di parlare della difficoltà di convivenza tra culture diverse, che condividono però gli stessi spazi ed utilizzano gli stessi servizi. Né bisogna ignorare (problema assai complesso) le dinamiche di potere mondiali, dalle quali è sorto un imprevedibile stato islamico, che opera con inaudito terrore. Ma oggi voglio soprattutto riflettere sulla diffusione e sul fascino della violenza, che coinvolge minoranze più o meno ampie, che si costituiscono a difesa di una identità contro l’altra.
E’ una contraddizione clamorosa dei tempi in cui viviamo. Da una parte una cultura diffusa, una predicazione insistita di Papa Francesco e un’amplissima opinione pubblica, tutte impegnate alla ricerca della giustizia e del bene comune (lotta contro la fame e le malattie, aiuto ai poveri, difesa della natura e di tutte le specie animali, priorità delle soluzioni diplomatiche su quelle militari), dall’altra parte una violenza, individuale e di gruppo, che dilaga – con giustificazioni irrisorie – nelle scuole, nei campi sportivi, contro gli insediamenti d’immigrati, sui marciapiedi dove dormono i senza casa o s’incontrano gli omosessuali.
Cosa ha spinto il giovane rap francese o il ragazzo di Genova (e centinaia di altri) ad arruolarsi nell’Isis? Credo che nella loro scelta abbia giocato un ruolo decisivo il fascino della violenza: la volontà di avventura, l’amore per il rischio, la potenza esaltante di avere un’arma in mano. La pace forse è bella, ma noiosa.
Il nostro modesto modo di vivere, lo sappiamo, è carico di ingiustizie. Ma è sempre modificabile, con interventi singoli e collettivi di critica e di lotta. Per alcune persone invece esso è oggetto di condanna totale, e merita solo disprezzo. (Negazione e fuga?).
Questa condanna totale, che esclude qualsiasi via d’uscita, è forse all’origine di tanti terribili fatti di sangue (e follie di singoli), cui assistiamo sconvolti.
Paradossale ma emblematico il caso della donna di 84 anni (italiana!) che per vendicarsi di uno sfratto ha tentato di incendiare la casa da cui era stata mandata via. Non vi è altra strada che la violenza per ottenere giustizia?
Aspetto sempre con piacere i tuoi articoli, sei sempre stata per me una buona guida, i tuoi giudizi spronano i miei a superare ostacoli interni.
Cara Simona è proprio così nessuno spera più nella giustizia, neanche in sentenze eque dunque si è tornato “all’ognuno faccia da se”!