disastro aereo, le ragioni senza ragione
Mentre sui giornali si susseguono rivelazioni sul passato del pilota suicida Andreas Lubitz e, come spesso accade, si scoprono fosse piene del senno di poi, sul disastro aereo dell’Airbus A320 della Germanwings si addensano a ondate domande senza risposta. Com’è possibile che regole e modalità dei controlli sulla salute fisica e psichica dei piloti, siano così variabili ed aleatorie, dipendenti dall’autoregolamentazione di ogni singola compagnia, e non uguali per tutte, definite e gestite da un ente o un’agenzia internazionale? Com’è possibile che sia stato ignorato, nonostante l’esistenza di almeno quattro precedenti stragi dovute a piloti che hanno voluto trascinare con sé nella morte i passeggeri degli aerei che guidavano, l’altissimo rischio suicida di una persona che soffriva da anni di un grave disagio psichico, e per questo era in terapia psichiatrica? Com’è possibile che Lubitz sia riuscito a nascondere a tutti le sue condizioni e le sue intenzioni sino alla fine? Eppure è possibile, perché è accaduto.
Tre ordini di responsabilità si intrecciano su questa tragedia: la responsabilità personale, che sussiste anche all’interno di un disagio rinnegato; la responsabilità collettiva, ma non meno diretta, dei dirigenti della compagnia e di chi era preposto ai controlli; ed una responsabilità indiretta, diffusa, ma non meno grave, di tutti coloro che sapevano o potevano sapere, che potevano e non hanno voluto vedere, e soprattutto accostarsi, raccogliere, accogliere un disagio che invisibile non era di certo, nonostante i tentativi di occultarlo. Una responsabilità diffusa che in altri luoghi, in altri momenti, rispetto ad altre persone, può riguardare tutti, da cui nessuno può chiamarsi fuori.
In un bell’articolo sul Giornale di Sicilia del 27 marzo scorso, Giuseppe Savagnone spiega perché: «Andreas Lubitz era un bravo giovane, con la passione di volare. Qualcosa deve avere cambiato la sua vita. Ma, se due ore prima di quel terribile episodio, avessero chiesto a qualcuno di coloro che oggi mormorano con orrore e forse con odio il suo nome, di interessarsi alla sua storia, la risposta sarebbe stata un cortese sorriso di stupore: quelli non erano fatti loro! E invece sì. Erano fatti di tutti».
Difficile rendere meglio il senso del legame tra le storie, i percorsi, i destini di ogni donna e di ogni uomo, di ciascuno rispetto agli altri, e della conseguente responsabilità che ne deriva: saper vedere, saper ascoltare, partecipare, condividere. Ogni persona è un individuo-in-relazione, è tramite le relazioni e nelle relazioni che si forma il sé: tendiamo a ignorare, a respingere questa verità, perché le relazioni sono impegnative, spesso comportano rischi ed alti investimenti: più comode e superficiali, quelle virtuali sembrano a molti un surrogato utile ad evitare, se si vuole, una comunicazione autentica e il conseguente coinvolgimento. Ma siamo già tutti coinvolti, e il “prossimo” resta tale anche per chi vuole ignorare quanto la sua vita sia legata alla propria; anche per chi, a tragedia avvenuta, non sa dire altro che «…eppure, sembrava una persona così tranquilla!».