la morte in silenzio di un migrante

18 giugno 2015 di: Marcella Geraci

La triste vicenda della donna filippina travolta e uccisa da un auto in fuga alla periferia di Roma non può non ricondurmi a Caltanissetta, in un giorno qualunque di qualche mese fa. Un giorno come tanti, lo stadio Tomaselli deserto e qualche sportivo che corre per strada. Dalle auto volano sguardi fugaci, c’è chi si chiede cosa facciano tutti quei migranti in assembramento nel piazzale attiguo allo stadio. Nessuno osa domandare e qualcuno, preoccupato da una possibile rivolta, chiama la polizia. Intanto dal vicino Cda/Cara di Pian del Lago, dal centro della città e dagli accampamenti in zona, continuano ad arrivare ragazzi.

Hanno camicie lunghe e sandali estivi e camminano in fila indiana per raggiungere lo spiazzo. Dopo qualche ora arriva una volante e quando gli agenti scendono dall’auto non trovano rivolte, né proteste. L’assembramento è un gruppo di preghiera fatto da decine e decine di pakistani, afghani e persone provenienti da diversi paesi dell’Africa. Si sono riuniti nel piazzale per commemorare Muhammad Tow Feek, il ragazzo pakistano morto lo scorso 20 aprile, dieci giorni dopo essere stato travolto da un auto nella strada vicina. Un incidente balzato agli onori delle cronache ma una morte avvenuta in sordina, senza che nessuno abbia saputo niente.

Dieci giorni dopo, nel luogo di preghiera improvvisato non c’è alcuna presenza di rilievo istituzionale e gli autoctoni si contano sulle dita di una mano. A prendere parte alla cerimonia solo persone migranti, anche quando arriva il feretro, rimpatriato nelle ore successive alla preghiera. Non tutti i presenti conoscono Muhammad, ma tutti pregano per lui e raccolgono soldi per la famiglia, loro che di soldi ne hanno pochi e che avrebbero tutte le ragioni per tenerli in tasca. Ma Muhammad era uno di loro, fuggito dal Pakistan e sopravvissuto al viaggio attraverso l’Iran, la Turchia e la Grecia. Uno di loro al quale il destino non ha sorriso e che ha trovato la morte sulla strada nissena che dallo stadio va a Delia, paese in provincia.

Uno di loro al quale rivolgere l’ultimo saluto nella periferia di una città sorda, assente. Perché un migrante può rimanere straniero e morire anche così, lontano dagli affetti più cari, in un giorno qualunque di una città del Sud, per colpa di una linea bus che manca, di una strada poco illuminata, della velocità di auto indifferenti. E tornarsene in Pakistan in silenzio, anonimo, con il solo conforto dei compagni. Così com’è venuto. Perché un migrante può morire travolto da una macchina senza scatenare sdegno o rabbia come invece accade quando il ragazzo alla guida del volante è rom. Nessuno vuole invocare linciaggi o forche, ma riflettere sul razzismo scatenato da quest’ultima vicenda alla luce di quanto è accaduto a Caltanissetta è doveroso.

1 commento su questo articolo:

  1. franca scrive:

    ottimo articolo veritiero ma anche emozionante.

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