le Supplici di Eschilo, rilette da Ovadia

13 giugno 2015 di: Egle Palazzolo

E dopo due protagoniste, due personaggi al centro della rappresentazione, due donne tanto diverse tra loro, il teatro si affolla, si dilata, frammischia vecchio e nuovo, traduce il greco in siciliano e qua e là lo trattiene e, ispirandosi appieno ad una delle prime tragedie di Eschilo che poggia tutto sul coro, ci offre uno spettacolo altro. Di donne, delle figlie di Danao, emigranti spaurite che abbandonano l’Egitto per evitare violenze, supplicanti ospitalità al re di Argo.

Le introduce un magnifico cantastorie, Mario Incudine, e le guida la mano maestra di Moni Ovadia in un grande, lungo gioco che ha trascinato il pubblico. Moni sa creare, sa uscire dalle righe rispettandole, sa cogliere il senso dell’evento, spesso irripetibile che il teatro costituisce, sa tenere presente ciò cui tende la sua coinvolgente messa in scena. Lui bravo ma tutti bravi e infaticabili, aprono nel racconto qualche spiraglio di ottimismo per le donne in cerca di liberà che ieri come oggi non vogliono un amore imposto, e che ieri come oggi cercano accoglienza.

Ed è chiaro sin dall’inizio che la tragedia del mare e della morte, delle donne stipate nelle navi, spaventate, partorienti, sono il risvolto attuale di una condizione senza tempo dove a decidere del destino di alcuni o è un re buono, o un popolo generoso, o il futuro assume un volto tuttora imprevedibile. Forse c’è qualche allegoria di troppo o magari trovata e ricollocata tra canti balli di grande spettacolarità, in questo originale ripescaggio delle Supplici, mentre Ovadia re muove il suo mantello enormemente dipinto, e i temuti egizi si aggirano in postazioni mobili, minacciando e la figlia più agguerrita di Danao, (Finocchiaro) continua indomita la sua battaglia. Ma è andato tutto per il meglio. Se qualcuno declama “u cuntu” con ritmo avvincente, introduce, racconta, apre alla scena e infine fa coincidere i grandi applausi con la parola “democrazia” che male c’è. Chissà, magari così ce ne ricordiamo.

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