Gente di qualità
Profughi ungheresi in fuga sulle montagne vicino il villaggio di Andau in Austria. ©Dickey Chapelle/Wisconsin Historical Images
Dickey Chapelle è la prima fotogiornalista donna a morire in guerra.
Il suo esempio ha aperto la strada alle generazioni successive del fotogiornalismo femminile.
Donna temeraria e coraggiosa, nei suoi venticinque anni di carriera ha scelto di vivere il mestiere di fotoreporter in prima linea, documentato con il suo obiettivo i luoghi dei più importanti conflitti di guerra.
Tra le prime fotogiornaliste ammesse a documentare il secondo conflitto mondiale.
Ha mostrato in immagini potenti e sincere le battaglie di Iwo Jima e Okinawa , Pearl Harbor, le rivolte in Algeria, Panama, Libano, Ungheria, la rivoluzione cubana di Fidel Castro, il Vietnam etc…
Divisa militare, anfibi, berretto mimetico, macchina fotografica ed un paio d’ orecchini di perle. Questa la sua uniforme sul campo di battaglia.
E’ lei stessa con molta ironia a raccontarsi nel libro“ What’s a Woman Doing Here? A Combat Reporter’s Report on Herself. “
Appassionata sin da piccola di aerei, è tra le prime tre donne ammesse alla facoltà d’ingegneria aeronautica del MIT, finché interrompe gli studi per andare a studiare fotografia a New York dove incontra il suo futuro marito Tony Chapelle, pilota militare ed insegnane di fotografia.
Nel 1945- a soli 24 anni- riesce a farsi accreditare dalla Marina militare americana come fotografa sull’isola di Iwo Jima.
Il suo incarico è realizzare un servizio sull’attività di soccorso delle infermiere a bordo della nave ospedale ormeggiata a largo della costa. Determinata a documentare il combattimento in corso, ottiene di poter scendere dalla nave usando la scusa di dover concludere il suo reportage visitando l’ ospedale da campo dietro le linee del fronte. Giunta a terra riesce ad isolarsi e posizionarsi su una duna per fotografare cio’ che la circonda mentre tenta di schivare le vespe che le ronzano intorno. A fine giornata qualcuno le spiegherà che quelle “ non erano vespe. Ma pallottole da cecchino.”
Al suo ritorno in America userà le immagini dei soldati feriti per una campagna di sensibilizzazione per la donazione del sangue da poter inviare ai soldati al fronte.
Cresciuta in una famiglia di pacifisti- come racconta – considera la fotografia lo strumento più efficace per denunciare gli orrori di tutte le guerre.
Inviata in Europa dalla rivista Life durante la rivoluzione ungherese del 1956, viene arrestata mentre viaggia a bordo di un furgone che trasporta la penicillina per gli ospedali che ospitano i rifugiati ungheresi in Austria. Considerata una spia dai soldati Russi, rimarrà in prigione d’ isolamento per 2 mesi. Una volta liberata continuerà a lavorare come inviata de il National Geographic, Cosmopolitan, National Observer etc…
Insieme a suo marito aderisce all’ agenzia di soccorso AVISO (American Voluntary Information Services Overseas) vivendo e lavorando per cinque anni su un piccolo camper con cui si spostano tra l’Asia e il Medio Oriente.
Durante la guerra in Vietnam vince con le sue fotografie la censura del Pentagono mostrando i corpi senza vita dei soldati americani.
Nel 1965, alla fine della sua missione in Vietnam muore colpita dalla dalla scheggia di una mina durante un’imboscata.
La sua storia è raccontata nel recente documentario “No Job For a Woman”: The Women Who Fought to Report WWII “.