il gioco proibito
Il nostro Presidente della Repubblica, nel suo discorso di fine anno, ha ringraziato le donne italiane ricordando, tra l’altro, la persistenza di «pregiudizi e arretratezze» nella nostra società, ed il fatto che le pari opportunità sono spesso enunciate, ma non assicurate. Ho pensato a queste parole riflettendo su quanto sta accadendo a Locri, in Calabria, alle ragazze dello Sporting, una squadra di calcio a 5.
Sono brave queste ragazze, troppo brave: giocano in serie A. O forse si dovrebbe dire giocavano: i dirigenti del club hanno ricevuto ripetute minacce anonime con l’ingiunzione di cessare l’attività della società, e stanno valutando il ritiro della squadra dal campionato; la prossima partita, che sarà giocata il 10 gennaio, potrebbe essere l’ultima.
Credo che tutte e tutti, sportivi o no, siamo toccati da questa brutta storia, e infatti le manifestazioni di solidarietà alle ragazze sono state numerose; anche le parlamentari italiane, tra cui è costituita una squadra di calcio femminile, si sono espresse con un messaggio di sostegno e la proposta di giocare con la Sporting un’amichevole.
La Procura di Locri sta indagando sulle intimidazioni, i cui motivi sono per ora misteriosi; ma non può non sorgere il sospetto che vi sia coinvolta la ‘ndrangheta.
Tutto ciò che fa comunità e innesca un cambiamento combatte le mafie, ed è da esse combattuto; e quanto più un cambiamento che riguarda le donne, i loro corpi, i loro ruoli. Se pure non direttamente alle ‘ndrine, può essere legata ad un diffuso “sentire mafioso”, connaturato al sistema patriarcale, l’esigenza di controllare corpi e menti delle donne, i loro movimenti, le loro azioni, lo spazio in cui si muovono.
In questo senso, una squadra di brave giocatrici costituisce una minaccia in un contesto in cui resiste una subcultura antagonista alla libera espressione di sé degli individui, fuori dai ruoli ascritti, anche da quelli di genere. Un mondo in cui le donne non giocano.
Qui, ma anche altrove, giocare al pallone per le ragazze significa far saltare regole, proporre nuovi modelli: vuol dire rompere gli schemi, le cornici in cui per molto tempo siamo stati abituati a vedere inquadrato il gioco del calcio; che, in quanto grondante, secondo alcuni analisti, di simboli fallocentrici e infestato (inevitabilmente?) da violenze verbali e fisiche, è ritenuto ancora da molti, e certo non solo in Calabria, uno sport “prettamente maschile”.
Ed è un’enorme menzogna, per le molte competenti e appassionate tifose, per le tante brave e corrette giocatrici, per le bambine e i bambini che giocano insieme nei cortili: per tutte le persone per cui il calcio è il più bel gioco del mondo, e non un modo per scaricare frustrazioni, agire violenza e lucrare interessi.
“Non siamo le più forti, ma saremo forti insieme”. Questa scritta che si leggeva sulla parete del Palazzetto dello sport ha descritto le coraggiose ragazze che hanno disputato un incontro valido per il campionato di serie A elite di calcio a 5 femminile. Le minacce non hanno fermato la squadra delle brave e corrette giocatrici che l’autrice di questo articolo ci ha invitato a sostenere con tutta la solidarietà che ci contraddistingue.
Mi viene in mente “Vogliamo il pane, ma vogliamo anche le rose”, canzone del movimento operaio e femminista e sintesi della liberazione che passa attraverso la conquista del diritto a ciò che è apparentemente superfluo ma in realtà necessario per vivere e non solo sopravvivere.
Il cambiamento nel costume è contemporaneamente effetto e causa dello scardinamento dei vecchi schemi e produce inevitabilmente resistenze, come hai ben spiegato.
È solo questione di tempo, ma possiamo decidere, con i nostri comportamenti e le nostre parole, di accelerare e accompagnare il cambiamento.
Uomini e donne.