ragazzi di zinco
Forse oggi non c’è nessuno che abbia saputo raccontare cos’è una guerra meglio di Svjatlana Aleksievic, la giornalista e scrittrice bielorussa insignita, nel 2015, del premio Nobel per la letteratura. Tradotta in più di venti lingue, vincitrice del Premio Sandro Onofri per il réportage narrativo nel 2002 e del Peace Prize of the German Book Trade, la Aleksievic ha raccolto le voci dei ragazzi e delle ragazze che hanno combattuto, dal 1979 al 1989, la guerra in Afghanistan.
“Ragazzi di zinco” è il titolo italiano del suo libro, tradotto dal russo da Sergio Rapetti e pubblicato per la prima volta dalle Edizioni e/o nel 2003. Il romanzo è un grande racconto detto da soldati e soldate e inframmezzato dalle parole delle madri che hanno dovuto piangere la morte dei propri figli e delle proprie figlie, in quella che il regime aveva presentato come la “grande causa internazionalista e patriottica”.
Ma la “grande causa” non esiste più al ritorno di chi ha combattuto in Afghanistan, che si sente invece come rimosso o rimossa da un Paese che giudica con sospetto quello che, alla fine, viene considerato un grande errore e uno spreco di risorse. Le testimonianze del romanzo formano una voce sola per raccontare una guerra che ha coinvolto un milione di persone in armi, comprese quelle quattordicimila che ritornano in Urss dentro bare di zinco, sepolte di nascosto dal regime. Morti, feriti, torture, malattie, droga, le atrocità sulle quali il nostro tempo ci invita a riflettere, nel libro si presentano tutte, condensate in uno scenario che nessuno dei reduci e delle reduci saprà più togliersi di dosso. Il Paese ritrovato non è più visto da chi ha combattuto con lo sguardo disteso e sereno del prima della guerra, e tutta la diffidenza della madrepatria si riversa sugli afgancy, che vogliono raccontare un vissuto che il governo ha tenuto nascosto e che la gente non vuole conoscere. Una lettura bella, straziante, sofferta e molto utile in tempi come questi, scanditi dal refrain mediatico della guerra “necessaria”. Una lettura che può aiutare a capire perché è fondamentale ribadire che cinquemila soldati italiani in Libia non andranno.
Credevo fosse stato dato questo Nobel per questioni politiche mi sono trovata davanti ad una scrittrice magnifica,e a grandi pagine di letteratura.