L’amico arabo di Ungaretti Sceab lo«sradicato» morto suicida dal “Corriere della Sera” del 30.09.16

30 settembre 2016 di: Luca Mastrantonio

«Il nove settembre mille novecento tredici, verso le sette del mattino, Mohammed Shehab, nato ad Alessandria (Egitto) il ventitré gennaio mille ottocento ottantasette, contabile, celibe, figlio di Ibrahim Shehab e Aïcha, è morto nel suo domicilio in rue des Carmes cinque». A identificarlo, la padrona dell’albergo dove Shehab viveva e la donna delle pulizie. Il documento è depositato in prefettura al 5 arrondissement, vicino al Pantheon che sovrasta rue des Carmes, con l’omonimo hotel dove Shehab (o Sceab) ritrovò l’amico d’infanzia, Giuseppe Ungaretti, compagno di studi al liceo francese e di anarchia nella Baracca rossa di Enrico Pea, ad Alessandria d’Egitto.

Parigi era l’approdo naturale per due anime fraterne nell’estraneità alla patria (uno italiano, l’altro libanese) e nella passione per la poesia. Ungaretti, dirà poi, credeva nell’eco dei segreti dell’uomo, nella «poesia dell’inesprimibile e invece Sceab credeva, mente logica, arabo discendente da quelli che avevano inventato l’algebra, in una poesia strettamente legata alla ragione».

Ma la ragione diede torto a Sceab, «soggiogato» da Nietzsche, perso nell’assenzio per anestetizzare un dissidio identitario interiore che non riuscì a sanare, come invece fece Ungaretti, che aggiunse la Senna ai fiumi che scorrevano nelle sue vene ricche di poesia.

«S’è ucciso — scrive Ungaretti di Sceab nelle lettere —. Sul comodino aveva posato una sigaretta. L’hanno trovato morto, vestito, steso sul letto, sereno, sorrideva. Hanno trovato la sigaretta spenta sul comodino. Aveva distrutto tutte le sue carte, manoscritti di novelle e di poesia, nel più puro francese, della più schietta invenzione». Il fantasma di Sceab lo visiterà periodicamente, dal cimitero di Milano, raccontato in Chiaroscuro, al fronte del Carso, dove scrive In memoria, il 30 settembre 1916, a Locvizza: Sceab diventa l’alter ego di Ungaretti.

La poesia In memoria apre la raccolta d’esordio Il porto sepolto(1916) e schiarisce in versi limpidi i nodi oscuri di Sceab, che erano i nodi di Ungaretti e di tanti altri sradicati. Il fallimento dell’assimilazione culturale (Sceab ripudia il nome del Profeta, Maometto, «il lodato») è in un epitaffio fulminante: «Fu Marcel / ma non era francese»; e ci immette nello scacco esistenziale di Sceab: doppio, perché non trova salvezza nella poesia, come riesce a Ungaretti: «E non sapeva più / vivere / nella tenda dei suoi / dove si ascolta la cantilena / del Corano / gustando un caffè // E non sapeva / sciogliere / il canto / del suo abbandono // L’ho accompagnato / insieme alla padrona dell’albergo / dove abitavamo / a Parigi / dal numero 5 della rue des Carmes / appassito vicolo in discesa// Riposa / nel camposanto d’Ivry / sobborgo che pare / sempre / in una giornata / di una decomposta fiera».

Di questa poesia, nel 1963, Ungaretti stesso — come ha ricordato Paolo Di Stefano sul Corriere del 12 gennaio 2015 — darà una lettura politica: è il «simbolo di una crisi delle società e degli individui che ancora perdura, derivata dall’incontro e scontro di civiltà diverse e dall’urto e conseguenti sconvolgimenti tra tradizioni politiche e il fatale evolversi storico dell’umanità».Oggi, nella discesa di rue des Carmes, c’è ancora l’omonimo hotel, un due stelle strategico, nel quartiere latino. Una targa ricorda Ungaretti. Di Sceab nessuna traccia, lo ignorano anche al centro studi africano lì accanto. Verso le sette della sera, però, alla reception dell’hotel arriva Omar, algerino; conosce la poesia di Ungaretti e di Sceab sa tutto quel poco che ci è concesso sapere. La Francia oggi è piena di Sceab, ci dice in inglese: vengono visti come arabi in Francia e come francesi nei Paesi arabi.

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