In quale America viviamo? da “Repubblica.it” del 11.11.16
Sempre la stessa, grosso modo. Bisogna resistere alla tentazione di descrivere tutto in termini di svolte epocali. Data la natura del sistema elettorale americano, piccoli spostamenti di elettori in Stati-chiave o variazioni nell’affluenza si traducono in alternanze brutali. Ma non bisogna trarne la conclusione che l’America è “irriconoscibile” rispetto a quella che elesse Obama. Cito qui un autore di destra, su un giornale che ha sempre parteggiato per i repubblicani, e oggi si rivolge a Trump in questi termini: “Tu e la tua squadra vi meritate un riconoscimento per aver strappato una vittoria nel collegio elettorale (così viene chiamato il sistema dei “grandi elettori” ndr). Ma hai perso nel voto popolare. Hai avuto meno voti di quanti ne ebbe Mitt Romney nel 2012. Hai superato a stento i voti che ebbe John McCain nel 2008 nella sua tremenda disfatta. Perché il tuo mandato non caschi a pezzi al primo scandalo o al riapparire dei fantasmi del tuo passato, devi guadagnartelo con un successo sul fronte economico”. (Holman Jenkins, “Meet Pro-Growth Trump”, Wall Street Journal di oggi). Parole pacate di un conservatore che non si monta la testa, non descrive l’America post-elezioni come un paesaggio rivoluzionato. I rapporti di forze variano poco, questo è un paese sostanzialmente bi-partitico e diviso in due, semmai con una leggera preponderanza dei democratici. I quali però sono generalmente meno disciplinati come elettori, se non vengono mobilitati da figure carismatiche come Obama o Bill Clinton. Poi naturalmente il sistema elettorale, amplificando spostamenti marginali dell’elettorato, può consegnare tanto potere ad una parte sola. Ma se questa non sa farne buon uso, i ripensamenti arrivano.
Questa visione minimalista, o minimizzatrice, tende a smussare le asperità del ciclo elettorale guardando ai trend di lungo periodo, alle costanti. Ma non produce titoli a effetto sui giornali.