O’ Tama Kiyohara, un’artista giapponese a Palermo

28 giugno 2017 di: Rossella Caleca 

Gli ingredienti di una fiaba ci sono tutti: c’è un re (anzi, un imperatore), c’è un paese lontano ed esotico, c’è una storia d’amore a lieto fine. Ma questo è solo l’aspetto più superficiale della straordinaria “avventura culturale” di cui due grandi artisti, aprendo la strada all’incontro tra due mondi lontani, furono protagonisti a Palermo tra fine Ottocento e inizi Novecento.

La splendida mostra curata da Maria Antonietta Spadaro, “O’ Tama e Vincenzo Ragusa. Un ponte tra Tokio e Palermo”, inaugurata a Palazzo Sant’Elia il 12 maggio e visitabile sino al 28 luglio 2017, racconta attraverso molte opere, testi e testimonianze, una vicenda artistica e umana che fu anche la parziale realizzazione di un’utopia.

Nella seconda metà del XIX secolo, l’imperatore Meiji aveva deciso un radicale rinnovamento della società giapponese, con l’abolizione del sistema feudale e la fine dell’isolamento economico e culturale del paese rispetto al resto del mondo; in questo quadro, esperti di varie nazioni furono invitati ad insegnare scienze, tecnologie ed arti occidentali in Giappone. Della delegazione italiana di artisti, giunta nel paese nel 1876 per fondare, su invito del governo, un’Accademia d’Arte Occidentale, faceva parte uno scultore palermitano, Vincenzo Ragusa, che incontrò a Tokio O’ Tama Kiyohara, una giovanissima, ma già nota esponente della tradizione figurativa giapponese. Alcuni anni dopo, O’ Tama, con alcuni membri della sua famiglia, anch’essi artisti, seguì Vincenzo, che volle tornare a Palermo per fondare una Scuola d’Arti Orientali, presso cui la giovane artista divenne una valente insegnante.

L’incontro tra stili, temi, linguaggi artistici diversi si riflette nelle opere della pittrice, che si avvicinano sempre più, nel corso del tempo, alla tradizione occidentale, senza perdere la grazia, la raffinatezza e il particolare sguardo sul mondo, propri di una cultura orientale. Il progetto culturale, di ampio respiro e antesignano rispetto ai tempi (anche per la visione improntata all’incontro su un piano di parità tra le due culture ed al sincero e appassionato interesse di Vincenzo per l’Oriente), conoscerà alti e bassi, ma la coppia sarà sempre stimata e ben accolta nell’ambiente artistico e nell’alta società della felice Palermo dei Florio; quando i due decideranno di sposarsi, una nobildonna, sua cara amica, sarà la madrina di battesimo di O’ Tama, che dietro suo suggerimento prenderà il nome di Eleonora.

L‘artista rimarrà a Palermo per più di cinquant’anni, anche dopo la morte del marito, continuando a dipingere e a insegnare, finché una nipote non verrà a “reclamarla” per ricondurla al paese d’origine, dove vivrà i suoi ultimi anni. E l’impressione è che O’ Tama e Palermo si siano intellettualmente riconosciute, appartenute e mai dimenticate.

Tra le tante stupende opere, realizzate con tecniche svariate, che testimoniano, nell’ambito della mostra, l’evoluzione artistica di O’ Tama attraverso gli anni, una colpisce particolarmente: è “La notte dell’Ascensione”, che mostra il lungomare di Palermo, nei pressi di Porta Felice, qual era nel 1891, durante l’evento della “benedizione degli animali” (in quella notte, infatti, secondo un antico mito, le acque del mare divengono dolci e medicamentose; un tempo i pastori vi facevano scendere le greggi, pratica sostituita dalla Chiesa con una più canonica benedizione). La festa notturna, credo mai ritratta da pittori locali, è resa in modo originale con una rappresentazione ricca di particolari, ma anche di parti in ombra, nascoste e, si direbbe, segrete: così una sensibilità memore di una diversa concezione del rapporto tra l’uomo e la natura, di altre storie ed altri miti, può cogliere qualcosa che i nativi, già allora, avevano dimenticato.

 

 

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