Vivian Maier. Una fotografa ritrovata

9 settembre 2017 di: Grazia Fallucchi

Un gigante della street photography e una fotografa sconosciuta sino a qualche anno fa hanno convissuto per qualche mese in due esposizioni a Palazzo Ducale di Genova: Elliot Erwitt, Kolor, una retrospettiva di immagini a colori del grande maestro nel Sottoporticato (chiusa il 3 settembre) e “Vivian Maier, una fotografa ritrovata” in mostra sino all’8 ottobre nella Loggia degli Abati. Pochi metri di distanza tra le due mostre e una distanza siderale tra i due protagonisti, che pure rivolgono i loro sguardi principalmente sull’America degli anni 60. Il fotografo della Magnum, geniale e dissacrante, cosmopolita e mondano, e la “tata” Vivian Maier, una vita silenziosa e solitaria a fianco delle famiglie dei bambini che accudisce, i quali di lei ricordano soltanto che non si separava mai dalla Rolleiflex e che aveva una passione per i cappelli. Vivian Maier è ormai un caso mondiale, grazie anche all’opera di diffusione del suo primo scopritore John Maloof: l’allora agente immobiliare e ora principale curatore di questo enorme patrimonio fotografico, nel 2007 dopo avere per caso acquistato a un’asta migliaia di negativi conservati in alcuni scatoloni, si mette alla ricerca dell’autrice, per scoprire, da un annuncio mortuario, che è scomparsa proprio un giorno prima. (V. Maier nasce il 1 febbraio 1926, muore il 21 aprile 2009).

Siamo nel 2009 e inizia qui il mito di questa fotografa, che durante la sua vita non aveva mai né stampato né mostrato ad alcuno le sue fotografie, ora esposte dalla Cina, al Canada, all’Europa. E libri a lei dedicati, due documentari, un film.

A Genova sono in mostra 120 fotografie in bianco e nero degli anni ‘50 e ‘60 e alcuni scatti a colori degli anni ‘70: una trentina di anni della vita di Maier, in giro da sola o con i suoi bambini per le strade di Chicago e New York, spesso lontana dai quartieri dell’alta borghesia: il ferry di Staten Island, le spiagge di Coney Island, operai nelle botteghe, donne del popolo dalle gambe gonfie: ma anche bambini ben vestiti che giocano svogliati e composti e donne della upper class delle quali svela tratti di durezza e alterigia, sulle quali il suo sguardo austero si fa sottilmente sprezzante.

Donne antipatiche, quanto sono adorabili gli scugnizzi che la fotografa riprende, bambini imbronciati e verissimi del proletariato dove lo sguardo della Maier sembra addolcirsi. E poi lei, Vivian. Quello che colpisce nella mostra di Genova sono infatti una ventina di autoritratti: ritrae la propria ombra su un prato, sul selciato, ma si fotografa soprattutto nelle vetrine e negli specchi, consapevole di vedersi riflessa. Un modo che inquieta e che suscita qualche interrogativo. Forse, un segno della sua esistenza sfuggente? Il suo doppio nascosto? I suoi ex bambini raccontano ora di una donna femminista, socialista e anticattolica, ma sempre misteriosa. Fotografava per sé, e di sé, senza mai stampare una foto, una attività febbrile e ossessiva che si esauriva nello scatto, senza la curiosità di verificarne la resa, senza mai “riguardare”. Vivian Maier, un enigma, è stato detto. Di lei Marvin Heiferman ha scritto che in questo modo dava un senso alla propria vita: scaricava così le tensioni e i desideri repressi, nascosti sotto un’apparenza di estraneità e di distacco? Vivian portava la sua rolleiflex tra il cuore e lo stomaco dove, secondo una teoria, risiede il nostro secondo cervello: che oltre a digerire, elabora informazioni e emozioni, colori, suoni, immagini.

(Nelle foto viene riportato soltanto l’anno dello scatto. In copertina, New York 1955, qui di seguito: autoritratto 1981, Chicago 1970, autoritratto 1975, S.Francisco 1955, autoritratto 1954, NY 1955) 

 

1 commento su questo articolo:

  1. Rita scrive:

    bellissima mostra, che immagino sia la stessa che ho visto a Roma, anche se le foto che mi hanno colpito di più sono altre..
    Comunque complimenti per l’articolo, vivace ed accurato

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