printemps des arts, il festival

10 aprile 2018 di: Grazia Fallucchi

Per Marc Monnet, dal 2003 direttore artistico del festival Printemps des arts (Montecarlo, 16 marzo/ 29 aprile) “l’abitudine è mortale”. Bernstein diceva che esiste solo buona musica o cattiva musica, senza differenza di genere: il festival monegasco, presieduto dalla principessa Carolina di Hannover, ha uno sguardo colto e “scanzonato” sulla musica e sul modo di proporla. Attento ai linguaggi della contemporaneità, Monnet mescola stili ed epoche – ma anche un pubblico molto diversificato – con format originali che dimostrano come anche la musica cosiddetta classica possa essere contemporanea nel modo e negli spazi dell’ascolto. Il programma di queste settimane è come sempre un caleidoscopio di idee e di proposte: concerti con noti artisti internazionali ma anche di giovani talenti solisti, danza ma anche poesie e mottetti dei trovatori medioevali e giocolieri e fanfare, musica con strumenti d’epoca ma anche musica americana – Charles Ives e Morton Feldman -, Mozart “questo sconosciuto” e Luciano Berio con le 14 Sequenze, il contemporaneo Éric Montalbetti con Éclair physionomique in prima esecuzione assoluta commissionata dal festival e l’opera in forma di concerto Quatre jeunes filles di Edison Denisov, ispirata al quadro di Picasso. E le masterclass e la scelta di spazi non usuali. Non ultimo, e sempre molto atteso, un “appuntamento al buio”, il viaggio segreto a sorpresa dove la sorpresa è il luogo oltre che il programma: basta comprare il biglietto e trovarsi nel luogo da dove partirà un pullman, per arrivare magari in una radura, un edificio industriale, una villa storica, la piazza di un villaggio.

Senza dimenticare la web radio su cui seguire il festival e non ultima l’attività divulgativa e didattica cui Monnet tiene molto. Così tanto che il festival, attraversando idealmente il Mediterraneo, è sbarcato a Palermo in marzo, con due incontri, organizzati e condotti dalla palermitana Marta Romano, che di Printemps des arts è l’ufficio stampa italiano: dedicato il primo agli allievi del liceo musicale, il secondo, alla facoltà di Scienze del turismo, dove a un centinaio di studenti è stato raccontato il festival come realtà produttiva e macchina organizzativa che realizza l’inventiva di fantasia, di idee, di suggestioni culturali del programma e mette in scena gli artisti e le tante formazioni del festival: quest’anno, l’Orchestre National de France, l’Orchestre Philharmonie de Monte-Carlo, l’Orchestra of the Age of Enlightenment, l’ Ensemble orchestral contemporain, il Quartetto Zemlinsky , il Coro della radio lettone. E il Quartetto Béla.

Una matrioska, così il direttore artistico ha definito il festival, un racconto nel racconto, dove ogni bambola racchiude un’altra e dove ognuno può scegliere quella con cui “giocare” (il termine francese jouer rende bene l’idea). E ha “giocato”, ovvero ha suonato per più di cinque ore, dalle 19 alla mezzanotte passata del 30 marzo, il Quartetto Béla in quello che probabilmente è stato l’evento più emozionante del Festival, l’esecuzione del Quator n.2 di Morton Feldman (1983). Il Quator, di cinque ore e 15 minuti – ma a volte può durare anche sei ore – forse è esso stesso una matrioska, in cui i suoni si susseguono apparentemente sempre uguali, con sottili gradazioni di ritmo e colore strumentale, come a disegnare un quadro astratto o tracciare musicalmente il disegno dei tappeti antichi di cui Feldman era un collezionista: i “misteriosi paesaggi musicali di Feldman”, così Alex Ross titolava un suo articolo sul New Yorker, prendono corpo per chi ascolta e si lascia andare alla bellezza dei mondi sonori del musicista americano che John Cage aveva definito un poeta estremista.

Una esperienza mistica, è stato scritto sul programma, e così è stato. La sala conferenze dagli alti cassettoni ‘900 del Museo oceanografico, scenograficamente arredata con chaise longue, divani, luci soffuse, lasciava in un cono di luce solo il quartetto Béla, mentre il Quatuor si dipanava per un centinaio di ascoltatori (ognuno dotato di bianche pantofole), ai quali è stato lasciata la facoltà di muoversi in silenzio, uscire a bere e mangiare mentre il Quator continuava ad arrivare anche nell’atrio dove era allestito un buffet. Era la musica stessa a creare uno spazio protettivo, simile a una meditazione trascendentale: lo era certamente per uno degli ascoltatori, seduto in posizione yoga per tutta la durata di quello che è difficile definire semplicemente un concerto, che sembrava respirare all’unisono insieme agli esecutori e con la musica.

“Quante volte riuscite a suonare il Quator?” “Forse un paio di volte l’anno, dipende dalle situazioni e dal luogo – dice il violoncellista Luc Dedreuil – ma certamente prima di farlo abbiamo bisogno di un paio di giorni di preparazione, di silenzio, di distacco. Di una attitudine Zen”.

 

 

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