“108 metri” di A. Prunetti
Ho iniziato a leggere “108 metri” di Alberto Prunetti senza che vi fosse un legame con nessuna lettura precedente, né con un viaggio, una canzone o un film. Non sapevo neanche che l’autore e protagonista fosse di Piombino, e non potevo quindi neanche presupporre il legame, almeno geografico, con la terra che mi ospita da quasi un anno e mezzo. Scoprirlo è stato un primo elemento di sorpresa e di entusiasmo. Un’immersione nel mondo operaio, al tramonto del secolo breve, fra le province di Livorno e Grosseto. Un pianeta il cui centro gravitazionale era un nucleo d’acciaio (“il migliore che si potesse immaginare”) dal quale non era semplice sfuggire. Il leviatano che segnava il destino dei suoi sudditi, che dava lavoro e di lavoro uccideva. Quell’altoforno che “era l’ultimo pane, ma era anche l’unico”.
Da questo “pezzo di Maremma tra due fabbriche e un lembo di mare” Prunetti si imbarca per il Regno Unito “alla ricerca di un modo onorevole per sopravvivere sotto lo scettro di Sua Maestà”. Navigando dal vernacolo livornese allo slang meticcio dei sobborghi inglesi, l’autobiografia dell’autore fa da sfondo all’avvicendarsi dei personaggi sulla scena del lavoro nel mondo del turbocapitale. “Tutta gente tra i venti e i trent’anni, robusti figli senza prospettive della working class britannica che facevano carambola fra i servizi sociali e i benefit dei piani di assistenza”. Non sono personaggi arresi alla loro condizione, non vivono il proprio lavoro come un mezzo di sussistenza. Sono artisti nei loro mestieri, come John Silver, cuoco-filibustiere poliglotta, custode dei segreti culinari di un ristorante italiano della Downtown di Bristol, o come Brian, “insigne mentore dello staso a mani nude dei vespasiani otturati” che piange quando perde il suo posto di “lavacessi” nel cleaning staff del CLC Mall di Hampton Mews. O, infine, come l’attore radiofonico Gerald, che recita Shelley e Shakespeare mentre serve “bean in salsa di ketchup” dal bancone della mensa di un campo scuola estivo.
Sono i “working class hero”, ciurmaglia di marinai abituati ai venti imprevedibili dei marcati, sballottati da un mare all’altro secondo gli umori dei padroni, così vicini agli operai di Piombino, ceduti da una proprietà all’altra, esuli del loro mondo in via di estinzione e gettati in “quello della flessibilità, un mondo pieno di opportunità”.
Ma 108 metri non è un libro di testimonianza. L’intento dell’autore non è solo quello di mostrare le condizioni dei lavori a nero “senza day-off, senza holiday-pay, senza National Insurance Number, senza straordinari”, e di certo non è quello di muovere a compassione il lettore. È una scrittura d’attacco e di riscatto, d’orgoglio proletario contro i milord e i gentlemen di Bristol e di Piombino, contro i devoti al culto dell’Iron Lady e al mantra del profitto. Un giuramento, fatto dallo stesso autore “sul corpo e sul sangue dei lavoratori feriti, sfruttati e umiliati”, di “lottare e di tornare un giorno per combattere”.
L’immagine dell’emigrato che parte dall’Italia, soprattutto dal Sud, con una valigia legata con un pezzo di corda, tante speranze e nient’altro, verso il Nuovo Mondo, verso la Germania, senza internet, senza cellulare, dovendo aspettare lettere che spiegassero come stava andando senza di loro, lasciando mogli e figli, genitori e fratelli lì, immobili, con il cuore spezzato a metà, sembra essere lontana anni luce e invece, non è così. Migliaia di ragazzi e ragazze sono “costretti” a fuggire da questa Italia, che sembra essere tornata indietro e non essersene accorta, perché tutto sembra così vicino, così reale attraverso lo schermo di uno smartphone o di un personal computer. Un libro che parli e parla e soprattutto, che metta a paragone, da quanto mi sembra di capire, la situazione al di là e al di qua dei lavoratori, un libro scritto da un autore contemporaneo, giovane che ha vissuto quello che tanti ragazzi, tanti genitori, tanti familiari stanno vivendo in questo momento, un libro che parte “dal basso” sembra essere un buon preludio per una profonda riflessione e visto il ritmo serrato di questa recensione credo proprio che lo leggerò.
Visto che il ,libro di cui si parla parte da piombino e dalla sua realtà di fabbriche segnalo un altro bel libro sul lavoro e sui suoi costi e sui prezzi mortali che a volte si devono pagare proprio a causa di questo tipo di lavoro. E’ Acciaio di Silvia Avallone già premiato, se non ricordo male, con in più una bella storia di amicizia tra ragazzine sullo sfondo molto presente e drammaticamente presente delle fabbriche e di cosa significa lavorarci.
Maria