Come stai?

25 luglio 2018 di: Marta Sollima

“Come stai?” è una domanda preziosa. Ancor più preziosa se posta in modo sincero, guardando negli occhi il proprio interlocutore, con l’autentica curiosità di chi si aspetta una risposta altrettanto sincera. Immagino la scena di due persone che s’incontrano dopo poco o tanto tempo, l’uno chiede all’altro come sta, e alle spalle di chi riceve la domanda, si apre un mondo fatto d’immagini che scorrono e s’intrecciano come un lungo filo arzigogolato che farebbe venire il capogiro a chi cerca di sistemarlo. Nell’atto di rispondere, l’interlocutore riduce nella sua mente la massa di pensieri che più lo animano in quel periodo o in quell’istante e risponde, più o meno convinto, storcendo un po’ il naso e inclinando la testa: “Bene.” Risponde “bene” anche se bene non sta, secondo la confidenza e del rapporto che lo lega all’altro, per lo meno è stato nutrito da un interesse nei suoi confronti. Chiedere “come stai”, è una forma d’interessamento, un gesto di generosità comunicativa verso il prossimo, è ancora meglio di un abbraccio.

Sono le dieci di sera. Esco da casa per incontrare degli amici che non vedo da molto tempo, forse tre anni, forse ci siamo allontanati per troppo tempo per poterci interessare alle nostre persone, eppure vediamo che succede, se ricordiamo qualcosa dell’altro. Cammino, devo raggiungere il locale in cui si trovano, chissà se ho capito qual è, in caso li chiamo. Nel frattempo mi chiedo come stanno, cosa mi sono persa in questi ultimi tre anni, come li troverò, voglio chiederglielo, chiedergli come stanno. Una volta raggiunto il locale li vedo lì, seduti, sempre gli stessi, come se il tempo non avesse mai aggiunto nulla a livello di esperienza al loro stato mentale e fisico. Inizialmente c’è un po’ d’imbarazzo. Io cerco in tutti i modi di mostrare loro che sono cambiata, che non sono più una persona egocentrica, che ho interesse verso gli altri e discrezione. Eppure in quel momento sono trafitta da mille dubbi: sarò in grado di chiedere loro come stanno? Sarebbe ipocrita mostrare loro interesse con questa domanda dopo tre anni in cui non ce lo siamo più chiesto, neanche per sbaglio? Loro hanno interesse di sapere come sto io? La serata di svolge tra tanti discorsi, parliamo “del più e del meno”, sì, del più e del meno, espressione che si usa in tanti.

Ma, come stiamo, non ce lo chiediamo? O forse sì. Forse in modo trasversale. “Ti sei laureato? Su che argomento era la tesi?” “Il relatore ti ha seguito? Suoni ancora? Canti ancora? Che musica fai ormai? Suoni ancora la batteria? Suoni ancora il pianoforte? Leggi ancora i libri di Marx? Ti piace ancora l’arte contemporanea o hai cambiato passioni? Hai voglia di cambiare città? Vuoi restare qui, o andare all’estero?” Sì, sono tutte domande. Tutte domande legate a un sentire, a una condizione d’essere, all’ipotesi di stare male dentro, o di stare bene, ma cosa è stare bene? Le risposte agli esempi di domande suddetti della serata sono stati “Sì, mi sono laureata, la tesi su Marx. Suono la batteria in un complesso ma non mi trovo bene. Il pianoforte non lo suono più, quella fase si è ormai esaurita. Marx l’ho letto per la tesi ma ormai sono esaurita, non ne posso più, voglio passare ad altro.” E quindi come si sta? Si sta come un’oscillazione continua tra un processo già avvenuto, già ottenuto e la noia della stasi, la brama di cambiare aria e la paura di cambiarla e di fallire.

“Come stai, Marta?” vorrei sentire questa domanda. È un desiderio, una brama. Una domanda difficile cui rispondere, non per me, per tutti. Una domanda che, nel mio caso, ingloba un mondo, ventidue anni, alcuni di questi rimasti irrisolti, altri cresciuti con bei traguardi e dolci momenti. Ma, oggi come sto? E gli altri come stanno? Voglio vedere come stanno gli altri, non lo so. Ma, so chiederlo? So porre in modo convincente questa domanda? Eppure c’è chi non la pone, chi non fa neppure lo sforzo d’interessarsi all’altro, anche solo per essere gentile.

Monika passava le serate con gli amici del compagno – o presunti tali – ad annoiarsi, in balia di sporche risate, polemiche e scherzi maschili, ma chiedeva a ogni persona seduta al tavolo “Come stai?” La risposta non le interessava, ma fingeva bene l’interesse, l’entusiasmo, il desiderio di scoprire persone nuove e mostrarsi gentile. Eppure nessuno lo faceva con lei. Nessuno la interpellava. Nessuno le mostrava interesse. Un buco nero, uno squallido locale in una piazza alienante in un periodo di freddo inverno, oltre la quale lei forse intravedeva un’oasi in cui rifugiarsi: la sua musica. Forse, nel bel mezzo di quelle serate, la divertiva di più pensare alle faccende noiose da sbrigare l’indomani, quelle quotidiane, come fare la spesa, “cosa è rimasto in frigo? Forse niente, domani ci penserò.” E intanto le ore passavano, i giorni, i mesi, e nessuno di quella gente le mostrava interesse. Finché lei partì. E ora sta bene, sta bene perché glielo chiedo. Dopo quello che ho visto, lo squallore umano e relazionale, voglio sapere come sta. Quanto a me, nonostante gli studi di arte che sto portando avanti, scelgo di non frequentare gli artisti. La maggior parte di loro parla soltanto di se stesso. Io io io io io io io ….. io io io io io io io io io io io io io io .

Picasso nell’ultima fase della sua vita firmava i suoi quadri “Yo”.

Però era lui, non aveva neanche bisogno di rendere chiara la sua firma, perché era così riconoscibile… E tutta questa gente, invece? Chi la riconosce? Chi sono, a chi gli frega niente del loro io io io io io io, di questo parlare incessantemente e solo di se stessi? Frega solo a loro stessi, e ciò implica che io debba stare lì ad ascoltare? La mattina, quando mi sveglio, mi dirigo in cucina per fare colazione. Trovo il mio coinquilino seduto con le cuffie. Gli chiedo: “Buongiorno, come stai?” “Sto scrivendo musica, un pezzo nuovo, seeeeenti, seeeeeenti!” E senza domandarmelo, ancor prima che io mi svegli per davvero e con gli occhi semichiusi, mi mette il suo pezzo e io, per educazione, sono costretta ad ascoltarlo. Venti minuti di pezzo. Forse mezz’ora. A un certo punto vado in bagno, e lui mi segue col computer. Non mi guarda, ma mette la musica e dice “senti, senti, senti il mio pezzo.” Io però quando cerco di fargli sentire i miei brani musicali non ho spazio per farlo. Non ho spazio, non ho spazio di creare questa comunicazione, mi verrebbe di imporglieli, sì, di imporglieli, un’imposizione alla stregua di quella sua. Non ho spazio con lui. Però ho spazio con me stessa. Metto un paio di scarpe ed esco di casa, mi dirigo verso il parco e medito, scarico camminando i miei pensieri.

A un certo punto chiamo Monika perché so che lei può capire il mio stato e le chiedo: “Monika come stai?” E lei: “Bene, tu come stai Marta?” E, sebbene non possiamo guardarci negli occhi come due interlocutori che si guardano al tavolo di un bar, sappiamo entrambe che è come se ci guardassimo con la curiosità di sapere sinceramente come l’altra stia, anche se stiamo in due paesi diversi. Quanto al resto, ci si crede Picasso con molta facilità, non firmando le proprie tele, ma firmando e contaminando l’atmosfera di una serata, di una giornata, scrivendo “yo” sui muri, sulle pareti di una stanza, sul tavolo, sulle sedie, sulle mie braccia, sulla mia faccia. Chissà che anche Picasso non parlasse sempre di sé.

 

2 commenti su questo articolo:

  1. Maria Lo Bianco scrive:

    Salve sono Maria, voelvo sapere quando esce il prossimo numero di mezzocielo su carta, qualcuna mi può e vuole rispondere?
    cordiali saluti
    Maria

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