La pelle
Nella notte dell’Arte a Venezia non eravamo in tantissimi a vedere la mostra “La Pelle” a Palazzo Grassi (24/03/2019- 6/01/2020), ma la maggior parte di noi aveva in mano il prezioso opuscolo, fornito dalla Pinault Collection in italiano, inglese e francese, senza cui il complesso significato di molti quadri di Luc Tuymans ci sarebbe sfuggito.
Avremmo comunque percepito l’angoscia disperata della donna ritratta nel dipinto Twenty Seventeen, scelto per il manifesto dell’esposizione, ma pochi avrebbero saputo che l’immagine è ispirata ad una serie televisiva brasiliana dal titolo 3%, che rappresenta un mondo distopico in cui ai poveri viene data una chance per tentare la fortuna. Chi sbaglia (solo il 3% riesce ad accedere alla ricchezza) viene condannato a morire avvelenato. Il quadro rappresenta il viso di una donna nel momento che la sua sorte sarà la morte. E’ fiction, presente come teematica e tecnica in molte opere della mostra, quali The Arena I,II,III o Big Brother o Allo! I, ma richiama alla mente altre situazioni di sofferenza e disagio estreme, evocate dal titolo della rassegna, che comprende 80 opere realizzate dal 1986 ad oggi. Senza le precise spiegazioni di Caroline Bourgeois, curatrice della mostra, e di Marc Donnadieu, conservatore capo del Musée de l’Elysée di Losanna, non si riuscirebbe forse a capire il nesso tra il titolo della raccolta, voluto da Tuymans, e il quadro Le Mèpris (2015), che rappresenta una casa di culto. Secondo l’intento dell’artista la casa è quella che Curzio Malaparte, autore del libro “La Pelle”, si fece costruire a Capri, dove fu girato da Godard il film “Le Mépris”, il Disprezzo, ispirato al romanzo di Moravia.
“ La Pelle” è comunque un titolo dal forte impatto emotivo, rimanda non solo all’epidermide del nostro corpo ma anche ad un’idea di superficie “che separa, protegge e nasconde l’interno” come scrive Clara Mazzoleni su rivista studio.com, dove presenta la mostra parlando di” Luc Tuymans e la violenza delle immagini”. Si tratta di una violenza evocata, non rappresentata dalle immagini, come nella serie dedicata all’Olocausto come Il Risarcimento, Il Nostro Nuovo Alloggio, Ricerche e Schwarzheide, mosaico in marmo realizzato per l’occasione nell’atrio di Palazzo Grassi. L’originale dell’immagine, apparentemente innocua malgrado il bianco e nero e le righe verticali che indicano tagli e barriere, è opera di Alfred Kantor, si apprende dall’opuscolo, un sopravvissuto ai campi di lavoro forzati di Schwarzheide. I detenuti non compaiono nell’opera, così come i Segreti di Albert Speer, architetto capo del partito nazista e Ministro agli Armamenti del Reich, rimangono negli occhi chiusi del suo ritratto. Anche in Me, autoritratto dell’artista del 2011, gli occhi sono nascosti dai riflessi sugli occhiali, quasi fossimo davanti ad una telecamera, mentre è proprio il flash che ci colpisce in Instant, non il viso della donna che scatta la foto. Anche in Head gli occhi (di un bambino o di una bambola) sono chiusi, come alla realtà del mondo, in una dimensione in cui ciò che non si vede è più importante di quello che è mostrato, come nel tronco Body del 1990 o in Niger (2017) che mostra una miniera d’argento durante il suo sfruttamento senza uomini al lavoro. Anche Murky Water, The Shore e Blood Stains richiamano alla mente tematiche di ordinaria drammaticità, ma siamo noi a vederle o è l’artista che le suggerisce?
Vanno viste più volte le opere, raccomanda Clara Mazzoleni, per coglierne tutti i significati, ma quanti visitatori ne avranno l’interesse?